Legami e coraggio
Se c'è uno sport che si può a ragione definire "cinematografico", questo è proprio il pugilato. Sia a livello puramente quantitativo che qualitativo, il matrimonio tra il grande schermo e lo sport di combattimento per eccellenza ha dato frutti importanti, da classici quali Lassù qualcuno mi ama alla saga di Rocky e a Toro scatenato, fino ai recenti Alì, Million Dollar Baby e The Fighter. La "tragedia della carne", come qualcuno ha definito la boxe, nutre in modo naturale e quasi primitivo lo spettacolo cinematografico, che ne diventa (col suo carattere affine di spettacolo popolare e intrinsecamente "ludico") quasi la naturale continuazione, una sorta di appendice che la estende e la rende fruibile da un gran numero di spettatori; le cose tuttavia si complicano quando il mezzo utilizzato è quello del documentario, che in teoria azzera le mediazioni filmiche e mostra la materia rappresentata per quella che è, nella sua essenza più grezza. Da questo punto di vista, questo Klitschko si rivela invero una bella sorpresa; perché esprime un'idea moderna di documentarismo (nella fattispecie sportivo) che unisce le necessità di resa obiettiva e di aderenza distaccata ai fatti, a una messa in scena dei momenti più pregnanti che è emotivamente molto forte, e assolutamente cinematografica. Il lavoro sul montaggio è effettivamente uno dei punti di forza del documentario di Sebastian Dernhardt: le (tante) sequenze degli incontri sono ricostruite in modo eccellente, e trattate attraverso l'uso di espedienti cinematografici (i piani ravvicinati, il ralenty, persino lo split screen) che conferiscono loro un grande impatto. Visivamente, siamo di fronte a un prodotto che rende pienamente giustizia alla materia trattata.
Questo Klitschko, biografia filmata dei due noti fratelli ucraini divenuti campioni di boxe, è comunque tutt'altro che un prodotto celebrativo. Nel rappresentare la vita di Vitali Klitschko e Wladimir Klitschko era facilissimo cadere nella trappola di un'enfasi forzata e slegata dalle necessità del racconto: la loro storia ha in effetti, in sé, molto di epico e avventuroso, quasi una celebrazione (involontaria) della volontà e della forza dei legami familiari, in un contesto, come quello dell'Ucraina negli anni a cavallo tra la fine dell'URSS e l'indipendenza, segnato da avversità durissime. Piuttosto che consegnare ai suoi spettatori un documentario facilmente incensatorio, l'esperto Dernhardt sceglie di concentrarsi sugli aspetti più minuti e meno noti della vita di Vitali e Wladimir, offrendone un ritratto tridimensionale e profondamente umano: dall'infanzia in un piccolo centro abitato ucraino al forte legame che subito ha unito i due fratelli, dalle difficoltà economiche al nucleo familiare come ancora di salvezza e saldo rifugio. Attraverso interviste ai due fratelli, ai genitori e alle persone che hanno accompagnato la loro ascesa come atleti, seguiamo una vicenda sportiva e umana che si intreccia profondamente con la storia del contesto sociale, e politico, in cui i suoi protagonisti si sono mossi: le ferree convinzioni politiche del padre, militare che ha trasmesso ai figli la sua idea di disciplina (poi tradotta nello sport) e la sua avversione, poi riconsiderata, per i modelli di vita occidentali e borghesi; la tragedia di Chernobyl, vissuta in prima persona dalla famiglia Klitschko e profondamente condizionante per tutta la loro vita successiva; l'atteggiamento protettivo del fratello maggiore Vitali nei confronti di Wladimir, l'incontro col ring prima attraverso il kickboxing (dapprima vietato nei paesi sovietici) e infine con il pugilato, con un'ascesa lenta ma inesorabile. In tutto questo, in primo piano sono i sentimenti contrastanti provati dai due fratelli (e ottimamente trasmessi allo spettatore) nei confronti di uno sport come la boxe: spettacolo brutale e affascinante insieme, residuo di un tempo antico in cui la violenza veniva considerata normale parte della vita, e insieme celebrazione del sacrificio e del coraggio, svuotati da ogni sovrastruttura e ridotti alla loro essenzialità, espressi nella più archetipica delle situazioni come il confronto tra uomo e uomo. Il film non fa nulla per nascondere la brutalità e la violenza della competizione pugilistica, messe anzi in primo piano nella scelta dei particolari, nel racconto degli incontri e nelle testimonianze dei loro protagonisti: il sangue e le conseguenze fisiche dei colpi sono sempre in evidenza, ampio spazio viene dato all'infortunio al sopracciglio che costrinse Vitali Klitschko ad abbandonare (contro la sua volontà) il match col canadese Lennox Lewis, non vengono lesinate interviste a medici sportivi che sottolineano la pericolosità intrinseca di un incontro. Tuttavia, lo spettacolo catartico del match, l'ancestralità dei valori che il ring porta con sé, e il perfetto matrimonio di quest'evento con lo spettacolo cinematografico, vengono ancora una volta presentati come momenti irrinunciabili, tanto per i due fratelli, quanto per quegli spettatori che, da secoli, da quello spettacolo si sentono irresistibilmente attratti. La rappresentazione delle rispettive cadute e delle resurrezioni, dei momenti di difficoltà dai quali ognuno dei due fratelli ha saputo rialzarsi, è tutta subordinata a questa visione del ring, e del combattimento, come del più semplice e potente veicolo per l'espressione del coraggio, esaltato da un contesto in cui gli errori vengono pagati, come non mai, a caro prezzo. Non è un caso che, nella parte finale del film, venga sottolineato come Vitali e Wladimir abbiano sempre evitato di combattere tra loro, e come l'imperativo venga ripetuto in modo categorico dalla madre: la boxe non è uno sport come un altro, e i legami di sangue confliggono con una competizione in cui si mette in conto di poter provocare all'avversario (o subirne) un danno. Fratelli significa alleati, nella boxe più che mai: questo sono stati, finora, Vitali e Wladimir Klitschko, con i risultati eccellenti che questo documentario ha saputo mettere in luce.
Movieplayer.it
3.0/5