Le piccole tragedie del grande commediante
Le avventure galanti del giovane Molière è un titolo che evoca istinti pruriginosi, curiosità maligne e morbosette.
Nulla di tutto ciò nella pellicola di Laurent Tirard. Il film è una fresca ma mai volgare commedia, che si prende molto sul serio, mettendo al centro della sua narrazione la gioventù di Molière, non ancora famoso e alle prese con debiti e aspirazioni di fama.
Tirard, con l'aiuto di un cast eccellente, costruisce dunque una classica commedia degli equivoci, incorniciandola in scenografie maestose e costumi d'epoca, e mescolando le tematiche imperanti nella Francia assolutista con quelle la cui urgenza è esclusivamente dell'oggi.
E così il giovane Molière, al quale presta il volto Romain Duris, astro nascente del cinema transalpino, riscattato dalla prigione dal 'borghese gentiluomo' Jourdain, uno splendido Fabrice Luchini, deve, in cambio della libertà, insegnargli a recitare, cosicché egli possa far colpo sulla bella contessa Celimene (Ludivine Sagnier). A complicare (sentimentalmente) la faccenda di per sé già non semplice, ci pensa la moglie di Jourdain, Elmire, interpretata da una Laura Morante che, fuori dalla terra natia, riesce a scrollarsi di dosso la parte della donna di mezza età nevrotica ed in crisi, per dare corpo a una elegante e maestosa padrona di casa, vero dominus di tutte le vicende del film.
Tirard mostra genio e creatività nel mescolare sapientemente in un unico canovaccio narrativo tutti (o quasi) i personaggi e le situazioni comiche che il commediografo francese ha creato nella sua lunga e prolifica carriera. Scelta, questa, che denota un attaccamento molto particolare alla storia e alla tematica.
Tirard tratta bene i suoi personaggi, mettendone a nudo tutte le debolezze ma sottolineandone, nel bene e nel male, la profonda umanità che li caratterizza.
Si può individuare una certa coincidenza tra le passioni e le aspettative del Molière del film, e quelle del film stesso, e del regista che lo scrive e lo dirige, dominati entrambi dall'urgenza del comunicare e dall'impossibilità e l'incapacità di farlo attraverso un registro nobile, elevato, costringendosi dunque a ricorrere alla commedia farsesca, alla risata, per denudare amaramente le pecche della società.
Da questa pulsione viene fuori uno dei più grandi commediografi di tutti i tempi, mentre, con tutto il rispetto, altrettanto non si può dire per il regista.
Tirard, al suo terzo lungometraggio, ha composto la sua opera migliore con la penna. Pubblicata in Italia da Holden con il titolo L'occhio del regista, è infatti una solida e gustosa carrellata di interviste mai prone con alcuni dei cineasti contemporanei di maggior spessore, da Scorsese a Godard. Dietro la macchina da presa, invece, Tirard si fa prendere la mano dalla passionalità con cui mette in scena e descrive, e diluisce troppo i propri momenti narrativi, facendo perdere anche il senso più profondo del suo far commedia.
Ha il pregio, d'altra parte, di dare vita ad un film pacato e solido, che, pur sfiorando il sottile confine più volte, non annoia mai, non offrendo però in alcun momento uno spunto, un rilancio davvero all'altezza.
Ne esce fuori un bel film in costume, e una discreta commedia che, avendo le altre ami un po' spuntate, fa leva principalmente (se non esclusivamente) su un grande cast per mantenere desta l'attenzione.