Recensione Apocalypse Now (1979)

Dentro la chiave interpretativa del viaggio abissale, ultimo e definitivo, viaggio della conoscenza dopo il quale non può esistere altro viaggio e altra conoscenza, si riassorbe tutto il dicibile sul film.

Le menzogne dell'etica e l'orrore del vuoto

Un viaggio abissale alla ricerca di qualcosa che è profondamente nascosto sotto la superficie visibile della cultura occidentale - o anche dell'uomo come essere sociale - o dell'uomo come individuo biologico: questo è il tutto di Apocalypse Now, nono lungometraggio di Francis Ford Coppola, il cui testo andiamo ad analizzare nella versione originale uscita nel 1979. Il tutto, dicevamo: perché, dentro la chiave interpretativa del viaggio abissale, ultimo e definitivo, viaggio della conoscenza dopo il quale non può esistere altro viaggio e altra conoscenza, si riassorbe tutto il dicibile sul film. Da questo punto di vista, il viaggio di cui si fa protagonista il capitano Willard, veterano di missioni speciali interpretato da un Martin Sheen in stato di grazia, che lo conduce a risalire il fiume Lung, nel cuore di un Vietnam sconvolto dalla guerra, al fine di raggiungere e uccidere, in Cambogia, il colonnello Kurtz, ufficiale sfuggito al controllo dell'esercito americano e dato per pazzo, null'altro è, a ben vedere, se non un'allegoria contemporanea, che ripensa, con l'ausilio di un plot e di un milieu virati in forma tragica, l'autenticità e la funzionalità - in altri termini, la natura - delle norme etiche nell'ambito della società umana.

Apocalypse Now è, quindi, in primo luogo, un grande film-trattato, o indagine, su che cosa è l'etica e sulla qualità dei princìpi sui quali essa si fonda e dai quali trova giustificazione. La tesi coppoliana - diciamolo subito - è che ogni cultura etica si basa sulla convenzionalità della menzogna, che la fa essere, sempre, sovrastruttura applicata ad un biologico che l'uomo è incapace di accettare in quanto tale; in Apocalypse Now, questa tesi, espressa, appunto, non in modo argomentativo ma per via di racconto allegorico, perviene a dimostrare la fatale falsità d'ogni convenzione/convinzione morale che, per ciò stesso, dovrebbe essere abbandonata, in favore d'una visione mitica dell'esistenza, della società e della Storia, scevra, in tal senso, d'ogni elaborazione intellettualistica o, per dirla in termini freudiani, determinata non più dalle finzioni concettuali del processo secondario ma solo e soltanto dall'emergenza istintiva del processo primario. Questa strada, però, è strada senza uscita: come dice, quasi alla fine del film, il colonnello Kurtz - interpretato da un Marlon Brando al massimo del suo magnetismo - negando il 'fetore delle menzogne' della moralità si acquista in purezza e in perfezione, potremmo dire in onestà; eppure, senza etica, sussiste solo l'orrore del dato biologico che, senza cultura, è disumanità e quindi 'orrore', che, non a caso, è l'ultima parola, pronunciata due volte, dal colonnello ormai morente. Apocalypse Now, insomma, è un film a tesi, un concept-film, potremmo dire, un trattato allegorico sulle ragioni e la validità dell'etica, e le conclusioni sono disperanti e paradossali: da una parte, infatti, si individua nell'etica la suprema menzogna culturale che ha come unica funzione la giustificazione, di società in società e di cultura in cultura, del sopruso e dell'assassinio, ma, d'altro canto, si rappresenta l'uomo senza etica come uomo non più umano, immerso nell'orrore d'un universo sregolato e caotico. In questo corto circuito, che è espressione d'una visione desolata e antiutopica della realtà, esplode e deflagra, con una violenza senza pari, la tragedia identitaria dell'uomo puro, che si scopre 'superiore persino alle proprie opinioni', come sussurra il colonnello Kurtz, o che 'non sa più nemmeno essere se stesso' e 'non sa esprimersi a parole' - e citiamo, stavolta, l'ater-ego giullaresco di Kurtz, quel fotoreporter allucinato, interpretato da Dennis Hopper, che, nel bel mezzo del regno cambogiano del colonnello, dice a Willard e soci quelle cose che neppure Kurtz è in grado di dire; è la tragedia dell'übermensch nietzcheiano (sebbene banalizzato) che sa di dover essere condannato da quella stessa collettività falsa e ipocrita, di cui, con il suo agire, ha infranto le regole basilari; quell'übermensch, oltretutto - nella contraddizione tipica dell'uomo moderno -, mentre sa d'aver fatto piazza pulita delle giustificazioni gratuite e menzognere, si rende conto d'aver prodotto solo negazione, d'aver negato il mondo senza indicare prospettiva, e suo destino, nell'orrore, non può essere che desiderare la morte, come purificazione dal peccato d'aver disvelato l'eterno inganno che regge la società umana. Ecco, allora, che il Kurtz di Brando e Coppola è uno Zarathustra che ha sì scoperto e sperimentato la libertà assoluta da ogni giudizio - ma, in quel preciso istante, ha demolito il principio, pur falso, su cui si regge ogni collettività umana, dando corpo al vuoto, al nulla, all'orrore, appunto. Siamo dentro un modo tragico, dunque: Kurtz è eroe che si è spinto troppo in là, fuori dall'ordine culturale delle cose, e non può non pagare l'oltraggio. Mutatis mutandis, è la vicenda di un Edipo contemporaneo.

La tragedia, come detto, si svolge sullo sfondo della guerra del Vietnam che, nel film, però, non è più nemmeno Storia ma origine, appunto - per il suo essere paradigma d'una situazione d'esasperata conflittualità -, di quell'allegoria che racconta, anche, della lotta metafisica tra Bene e Male, anche se nel film, per le contraddizioni di cui abbiamo parlato, di certo non è più possibile discernere l'un termine dall'altro e, anzi, Bene e Male entrano essi stessi in un labirinto concettuale di cui nessuno - autore, personaggi e spettatore - conosce l'uscita.
L'allegoria del viaggio si dipana tra due poli: il primo è rappresentato dall'etica falsa - perché funzionale a giustificare la guerra e lo sterminio - declamata dai militari di Natrang, che investono Willard della missione omicida nei confronti di Kurtz, colpevole, a loro dire, d'aver dato vita, nel suo regno cambogiano, a un modus vivendi che si fa beffe d'ogni regola costituita; il secondo polo è appunto Kurtz, nella sua opera di negazione d'ogni falsa moralità. I due poli sono distanti non solo concettualmente ma anche fisicamente: il primo si trova nella società ancora civile, benché sconvolta dalla guerra, del Vietnam delle città; il secondo ha fatto stanza dentro la giungla selvaggia e inestricabile, luogo senza spazio, metafora di un mondo dominato dall'emergenza delle necessità biologiche e naturali. La distanza spaziale permette la narrazione del viaggio, l'esplicitarsi del plot e, quindi, il dispiegarsi diegetico dell'allegoria.
A percorrere lo spazio tra i due poli, e quindi a vivere, direttamente sulla pelle, le contraddizioni dell'allegoria, ecco il personaggio di Willard, appunto. Personaggio-funzione, nel senso più puro del termine. Infatti, Willard non ha certo le caratteristiche tipiche di un personaggio-carattere: è silenzioso e intriso d'una riflessività - ben esplicitata dalla voce off - che, però, si presenta, fin da subito, come la voce dell'autore, prima ancora che del personaggio; d'altra parte, non è simpatico né antipatico, ha doti di umanità ma è spregevole a un tempo, quasi fosse una maschera schizoide; i suoi silenzi e i suoi sguardi, quasi mai carichi di affettività, non permettono allo spettatore un processo di immediata identificazione con il capitano delle missioni speciali; e, d'altra parte, Willard, nella lunga sequenza iniziale, in tutta evidenza debitrice delle sperimentazioni del new cinema americano, è solo un insieme allucinato di gesti, suoni e visioni, e questo insieme, a ben guardare, è già segno di una cultura in entropia che, fin dall'introduzione, prima ancora che cominci il racconto allegorico, non sa più discernere ma sovrappone, rendendoli con-fusi, i piani del reale, dentro una visione caotica priva ormai d'ogni logica. Il capitano, insomma, sembra assolvere, semplicemente, a un compito di carattere allegorico: è la cultura umana che, risalendo il fiume Lung, riscopre, pian piano, ciò che non si può dire, l'assenza di verità, il perturbante al massimo grado di profondità - che poi, di nuovo, è l'orrore, horror vacui, mancanza di senso, privazione di quella bugia collettiva che è la matrice dell'etica.
Willard ovvero la cultura risale se stessa, depurandosi delle proprie scorie, lungo un percorso che, da un lato, appare privo di soluzioni di continuità - e, in tal senso, perviene all'ammasso della giungla (o della selva) più oscura e inviolabile, luogo mitico ove l'essere si presenta in quanto tale, al di là d'ogni interpretazione culturale; d'altro canto, però, il viaggio iniziatico è anche frazionato in stazioni che significano gli stadi di abbandono della morale, o della civiltà, verso il recupero d'una dimensione collettiva inconscia e primordiale. La scansione di tali stazioni, peraltro, è ben definita e si compone in unità perfettamente discrete, secondo il dettame del racconto allegorico d'origine prettamente medievale, quasi fosse una rappresentazione sacra che si muove, a capitoli, lungo un percorso di luoghi deputati.
La prima stazione, allora, si rappresenta a Natrang, al cospetto degli ufficiali che illustrano a Willard scopi e modalità della missione. Gli alti gradi dell'esercito non hanno dubbi di sorta: Kurtz è impazzito e, per il bene dell'umanità, e in ottemperanza alle leggi morali più elementari, è necessario e doveroso che Willard 'ponga fine al comando del colonnello', vergogna e disonore di tutto l'esercito americano; gli ufficiali guardano in macchina, occhi fissi e sicuri, quasi a sfidare il mondo e lo spettatore e a voler affermare, senza possibilità di repliche, il loro punto di vista. Al livello di questo primo luogo deputato, la cultura in entropia lancia il guanto di sfida e, con ostinazione, si impunta nella menzogna, quasi fosse l'ultimo atto di resistenza.

La seconda stazione è l'inizio del viaggio su una imbarcazione della marina; non si tratta, però, della figura del viaggio moderno e contemporaneo che, da Cervantes a Kerouac, da Diderot a Calvino, si presenta sempre privo di mèta, per cui il senso del viaggio è, solo e semplicemente, il viaggiare; piuttosto, si tratta, come detto, di un viaggio d'impronta medievale, quasi dantesco, perché si muove verso una direzione ben precisa e trattiene come fine quello della conoscenza. L'elemento di modernità - in buona parte rilevato dal romanzo Cuore di tenebra di Conrad che, a detta degli autori, ha influenzato fortemente l'invenzione del soggetto - sta semmai nel fatto che, contrariamente ai viaggi allegorici della letteratura presecentesca, qui il viaggio di conoscenza non sembra condurre a una definitiva purificazione ma, piuttosto, a un'iniziazione al disvelamento del cuore caldo della realtà, rappresentato, adesso, nel suo essere crogiuolo di verità contrastanti, che possono attribuire alla realtà stessa, contemporaneamente e allo stesso modo, le qualità del Bene e del Male. Il viaggio conradiano e coppoliano, insomma, sembra voler rimettere in discussione le finalità conoscitive del viaggiare: e il viaggio non conduce, come in Dante, alla presa di coscienza di uno stato di perfezione ma, soltanto - si fa per dire -, ad una più alta consapevolezza dei punti critici della realtà e, più nello specifico, dei comportamenti umani. E se Willard è allegoria della cultura umana che viaggia alle radici di sé, anche i compagni di viaggio del capitano interpretano, nell'ottica di questo più vasto orizzonte, altrettante allegorie di alcune tipologie o abitudini umane: così, Philips, il capo dell'imbarcazione, è l'ignavia di tutti i militari, che non sanno scegliere ma obbediscono soltanto; il giovane Clean è i buoni sentimenti, che trovano ragion d'essere solo nell'immaturità sognante dell'età adolescenziale; Chef rappresenta, invece, l'inutilità della ragione, dentro un viaggio che, progressivamente, si allontana dalle necessità del pensiero raziocinante; Lance, infine, è la predisposizione a farsi mondo, a immergersi nel mondo, a incontrare l'istinto e a far propria una realtà non più coperta dall'ombrello rassicurante delle regole morali acquisite; ecco, allora, che proprio lui introdurrà sulla barca l'uso degli stupefacenti e, verso la fine del film, assumerà dosi pesanti di LSD, a ribadire la convinzione, tipica degli anni Sessanta e Settanta, che l'alterazione dello stato di coscienza possa ampliare le capacità cognitive e immaginifiche dell'uomo; e, d'altronde, al di là del capitano Willard, il solo Lance sopravviverà alle disavventure del viaggio di conoscenza, come se, infine, proprio nella sua vaghezza di personalità, e nella sua capacità di adattarsi ad esperienze stranianti, risiedesse la forza di liberare energie simboliche nuove, atte a dar vita ad una sorta di mitica palingenesi dell'universo.

Durante il viaggio, i natanti esploratori incontreranno le altre stazioni. In primo luogo, ecco la cavalleria dell'aria: una divisione di elicotteri, capitanata dal colonnello Kilgore - il volto e i gesti di un Robert Duvall sempre sopra le righe -, che sembra combattere una sorta di guerra riservata, volta a gettare tonnellate di napalm su inoffensivi villaggi contadini, per crearsi lo spazio necessario a solcare i fiumi del Vietnam a cavallo del surf; nell'intraprendenza omicida di questa compagnia, che fa la guerra quasi fosse un'opera d'arte o un melodramma wagneriano - ogni assalto, infatti, è sempre introdotto dal ritmo della Cavalcata delle Valchirie -, l'etica consolidata si fa azione ma, così facendo, si riplasma, di volta in volta, sulla base delle ragioni pragmatiche dell'azione contingente, perché l'azione, nell'assunto di Coppola, trascina e aggiusta alle proprie necessità irrazionali - l'accordo napalm-surf - la sovrastruttura razionale dell'etica; questo capitolo, allora, inaugura la riflessione sul relativismo della morale e, di conseguenza, già disvela la menzogna intrinseca ad ogni cultura etica.
Di seguito, nella sequenza dello spettacolo erotico delle playmates, fortunosamente incontrato dai protagonisti sulla piattaforma d'una fantasmagorica base militare, il discorso di Coppola si fa ancor più stringente: se da una parte, infatti, questa quarta stazione si fa allegoria d'una vita che vive soltanto del suo esser diventata specchio mass-mediologico verso cui convergono le aspirazioni e i desideri di massa, d'altro canto, e più in profondità, spettatori e personaggi assistono ad una prima liberazione smodata degli istinti, che attengono ancora alla pulsione di vita, nella misura in cui si tratta di istinti sessuali, ma introducono già, per metafora, il tema della pulsione di morte, nel classico e inscindibile binomio, che tutta la cultura occidentale ha da sempre fatto proprio, di eros e tanatos; non a caso, le conigliette di 'Playboy' sono costrette a ripiegare in tutta fretta a bordo di un elicottero - che, per tutta la parte iniziale del film, è il segno dell'apocalisse prossima ventura -, perché gli istinti delle truppe, improvvisamente, si fanno incontrollati e ciò che doveva essere fantasmagoria liberatoria rischia di mutarsi, nel breve volgere di un attimo, in violenza insondabile e cieca.

Siamo alle porte dell'Inferno. E, come in Dante, anche qui, è una fiera - la tigre -, casualmente incontrata in un momento di relax, a segnare il confine di una terra oscura, ove cesseranno di funzionare le leggi della morale e della ragione e comincerà a signoreggiare l'istinto, per di più rappresentato, d'ora in avanti, nelle sue qualità più pure e, per ciò stesso, più irrappresentabili.
A riprova evidente del fatto che, oramai, anche i protagonisti del viaggio sono immersi dentro un'atmosfera pulsionale che blocca l'accesso a qualsivoglia procedimento analitico razionale, interverrà, poi, lo sviluppo schizofrenico dell'incontro con il samprà di pescatori/contadini, che trasformerà una normale perquisizione di routine in un'orribile strage di innocenti, peraltro preannunciata dall'infittirsi del motivo simbolico della giungla e dalle stazioni di racconto di cui abbiamo già parlato.
Il ponte di Do Lang, allora, confine al di là del quale c'è la Cambogia, o, meglio - come dice Willard -, 'esisterà solo Kurtz', si rappresenta, quasi naturalmente, come l'anticamera dell'Inferno propriamente detto, 'buco del culo del mondo', in cui c'è solo negazione, assenza, anarchia distruttiva, fissità di sguardi di soldati perduti nel tempo e nello spazio, frasi smezzate, interrotte e senza senso, caos organizzativo e mentale; luogo senza più morale, ove regna, soltanto, l'istinto individuale di sopravvivenza di chi è costretto, metaforicamente, a vivere già tutti i giorni la morte che, tutte le notti, nella caparbietà dei vietcong, riafferma se stessa, distruggendo un ponte che, poi, di giorno, in un ciclo infinito di azioni macchiniche oramai senza motivo, sarà ricostruito da marines ridotti a null'altro che automi.

L'ottava e ultima stazione è quella di Kurtz: regno pagano e animale, luogo del pensiero mitico, in cui la giungla ha il sopravvento sull'umanità - umanità che non sa più essere consapevole e soggiace al dispiegamento puro dell'istinto. Kurtz è la funzione simbolica dell'uomo che, finalmente, si è liberato da ogni menzogna morale, e vive di azioni pure, cristalline e chiare, superiori al giudizio, scevre da ogni malinteso, dentro una crudeltà orribile ma non immorale, perché, qui, al centro simbolico della giungla o, potremmo dire, nel cuore dell'universo, si è ricostruita la purezza originaria dell'uomo come essere animale, ove ogni pensiero della differenza o dono di raziocinio è azzerato dalla coincidenza degli opposti nell'esplicitazione dell'unica realtà che ancora resta, l'azione pura che si dispiega nello spazio senza nessun corollario, puro istinto amorale, terribile e crudele e insostenibile, eppure mille volte più onesto di ogni cultura che tenti di giustificare, con falsi enunciati, ciò che, di per sé, non può ricevere giustificazione. In questo universo ritornato ai primordi, quell'essere che ha potuto, e saputo, sbarazzarsi degli infingimenti - Kurtz - è diventato Dio, e Padre, e Totem, Sovrano d'una comunità pagana ove ogni essenza discende da lui; e i figli procedono tutti dal Padre, che è inconscio puro, Monarca di un Regno in cui nemmeno le parole hanno ragione d'esistere, perché tutto è Rito e Mito che si ripetono ogni giorno senza giudizio, nella sfera d'una purezza assoluta mai macchiata da qualsivoglia tendenza raziocinante. Willard trova in Kurtz la fine del viaggio, 'la fine del fiume' - come dice lui stesso -; e la cultura e l'etica trovano qui la negazione di sé, nell'utero di un mondo dominato dalla più diretta e disadorna istintualità, che è diafana e cristallina come non mai, e atroce e spaventosa nella sua insensatezza. Il viaggio è finito e la cultura è di fronte alla fine del mondo. La cultura è alla fine di sé. La cultura è di fronte all'orrore del vuoto.

Esito intollerabile, perché la cultura non può accettarsi in quanto assenza e negazione. A Kurtz, allegoria della non cultura, non rimane, allora, null'altro se non il desiderio d'essere ucciso, per l'ultimo rito che liberi l'umanità dall'orrore del niente. Willard, e cioè la cultura che si è autodenunciata, deve uccidere Kurtz, per purificarsi sotto la pioggia e ricominciare. La giungla stessa aspetta la morte dell'istinto per inventare (forse) una nuova civiltà. Così, Willard uccide Kurtz, in una sorta di palazzo degli Atridi, milieu tipico da tragedia greca, in un rito sacrificale di purificazione palingenetica dell'umanità, della cultura e della morale; eguale rito, nella logica d'un montaggio delle attrazioni di sapore quasi ejženštejniano, si svolge anche fuori, sotto la pioggia e nel fango, nell'uccisione collettiva di un toro, fatto a brandelli, non a caso, con la stessa identica arma - una lama sacrificale - che Willard usa per uccidere Kurtz. La cultura nuova che deve ancora nascere (Willard) uccide la cultura che si è disgregata nell'entropia (Kurtz), proprio come un figlio, freudianamente parlando, uccide il padre per liberarsi delle pastoie. È la fine del mondo - di un mondo, almeno. The End dei Doors è il giusto contrappunto all'allegoria e, anzi, nel testo disperante e nell'andamento sinusoidale ed ipnotico del ritmo e della melodia, si fa essa stessa allegoria.

Willard riparte con il solo Lance, l'unico sopravvissuto perché ormai è diventato anch'egli puro istinto, e si è fatto capace di calarsi nel ritmo interiore dell'orrore del mondo, per poi trarsene fuori; durante l'assassinio di Kurtz, infatti, Lance partecipa, con gli indigeni - come un indigeno - al rito sacrificale del toro. Il film sembra dirci che il futuro è suo.