Il fenomeno del bullismo al femminile, sempre più dilagante oggigiorno in una società come la nostra ormai mortificante, arriva al cinema con un film italiano, Un gioco da ragazze, presentato in concorso al Festival di Roma tra polemiche per il soggetto scomodo che tratta e una censura ai minori di 18 anni, considerata esagerata dal produttore Maurizio Totti che ha fatto ricorso chiedendo alla commissione di rivedere la decisione penalizzante. Per alcuni solo una trovata pubblicitaria, ma Totti tiene a chiarire ogni equivoco ricordando che tale provvedimento comporta il ritiro obbligato dei trailer dalla tv e dai cinema, prima dei film ai quali erano stati precedentemente connessi, trovando quindi visibilità unicamente sulla stampa e su internet. A irritare i commissari, secondo il produttore, è stata l'assenza di adulti nel film, o comunque il mancato sviluppo delle figure genitoriali che hanno generato i piccoli mostri protagonisti di Un gioco da ragazze, tre adolescenti sprecate tra droga, atti di bullismo ai danni di compagne più indifese, cattiverie gratuite e ossessionante ostentazione di una classe sociale che sembra concedere qualsiasi cosa. Tensioni lesbiche e pruriti pedofili contribuiscono a rendere i toni del film ancora più torbidi. A dirigere il film è il giovane Matteo Rovere che racconta questa storia di teppistelle snob e dal cervello già fritto in età acerba affidandosi ai volti graziosi e ai corpi già sbocciati di attrici esordienti quali Chiara Chiti, Desirée Noferini, Nadir Caselli e Chiara Paoli. Le figure adulte sono invece rappresentate da un professore con la missione di redimerle, interpretato da Filippo Nigro, e dai due genitori della terribile protagonista, che rispondono ai nomi di Stefano Santospago e Valeria Milillo. Regista e cast hanno incontrato la stampa presente alla kermesse capitolina per difendere un prodotto che racconta parte dei giovani della nostra società da una prospettiva diversa che sono convinti non possa far male a nessuno e indurre a comportamenti emulatori.
Matteo Rovere, il film è stato censurato ai minori di 18 anni per il rischio di comportamenti emulatori da parte dei più giovani. Cosa pensa di questa decisione?
Matteo Rovere: Devo dire, innanzitutto, che non intendevo generalizzare, mi limito semplicemente a rappresentare uno spaccato della realtà giovanile. Mi interessa comunque molto questo dibattito che sta nascendo intorno alla veridicità dei personaggi. Ritengo di aver parlato di una società che in parte esiste e che qui viene raccontata in modo cinematografico, portando alla luce personaggi forti fino in fondo. Il cinema è un mezzo espressivo libero, sia negli intenti che nei destinatari. E' lo spettatore che deve prendere le distanze da ciò che vede e credo che proprio la coerenza della protagonista, che resta sgradevole fino in fondo, generi nello spettatore un distacco inevitabile. Nel film racconto una generazione alla quale non appartengo più da poco, ma sono convinto che i quattordicenni e giù di lì sapranno valutare ciò che vedono. Ogni ragazzo ha una coscienza critica che rende impossibile l'assumere a modello questi personaggi. Forse più che i giovani, a spaventarsi di fronte a questi temi sono più i loro genitori che non s'accorgono invece del vuoto circolare e dell'assenza di educazione ai sentimenti in cui crescono i ragazzi. Sono deluso da questa società che non dà ai ragazzi la possibilità di appassionarsi a qualcosa di sano e ho voluto raccontare una parte di giovani che tale società produce e continuerà a produrre sempre di più.
Come mai ha scelto di ambientare la storia in un contesto alto-borghese?
Matteo Rovere: L'adolescenza è l'adolescenza, a prescindere dal contesto. Non capisco perché ci sia questa convinzione diffusa che solo i ragazzi che crescono in modo disagiato abbiano un vuoto morale. Succede anche in ambienti borghesi e io ho voluto esplorarli perché mi sembrava interessante anche questa diversa prospettiva.
Come ha lavorato per aggiornare il linguaggio del romanzo omonimo, scritto da Andrea Cotti, a cui si ispira il film?
Matteo Rovere: Ho scritto il film con Sandrone Dazieri e Teresa Ciabatti che sono rispettivamente un esperto di noir e un'esperta di una certa adolescenza, che mi hanno quindi aiutato a sviluppare meglio la storia. Il jolly sono state le giovani attrici con le quali ho aperto continuamente un dibattito per tracciare qualcosa che fosse il più veritiero possibile. Oltre alla scelta di attrici esordienti, ho tenuto la macchina da presa vicina ai personaggi per aprire col pubblico un dialogo fisico e permettere agli spettatori di entrare nella storia.
Come si sono trovate le attrici a impersonare i propri personaggi e cosa ne pensano della decisione di vietare il film ai minori di 18 anni?
Chiara Chiti: Il mio personaggio non esce vincente, resta un vuoto in lei, un'infelicità derivante dalla mancanza di emozioni vere che non può in alcun modo rappresentare un modello. La sua cattiveria vince perché non viene mai punita, condannata. Le istituzioni sembrano infatti acconsentire al suo comportamento, la famiglia in fondo non la conosce affatto, è assente, e i genitori non si pongono domande. A scuola le ragazze fumano le canne e non viene fatto niente. La mancanza di punizioni fa sentire legittimata la protagonista a continuare nei suoi atti "impuri". Queste ragazze, attraverso atti di bullismo, si sentono più forti. Modelli negativi, come Paris Hilton e Kate Moss, proposti dai media contribuiscono a influenzare i ragazzi più indifesi, perché se ne parla come fossero eroine e perciò le ragazze più giovani e ingenue possono arrivare a prenderle come punti di riferimento. Credo invece che il mio personaggio sia stato raccontato da Matteo in modo molto cinico, io stesso ho provato un sentimento di rigetto quando ho visto il film e non credo quindi che si possa considerare emulabile perché è chiara la sua infelicità e il vuoto che la caratterizza.
Desirèe Noferini: Questo è il momento migliore per aprire gli occhi, perché oggi i valori si sono persi. In più, tra genitori e figli manca il dialogo, una cosa fondamentale nell'adolescenza. Ragazze come quelle ritratte nel film esistono ed è quindi giusto rappresentarle.
Nadir Caselli: Tutti i ragazzi conoscono almeno una persona assimilabile al modello di Elena, la protagonista. Voler censurare il raccontare una verità significa soltanto non volerla vedere, tenere i propri figli lontani da queste vicende, ma dovrebbero capire che i loro ragazzi entrano in contatto tutti i giorni con queste persone.
Chiara Paoli: Ogni personaggio del film mette in risalto caratteristiche diverse riscontrabili nei giovani d'oggi. Il bullismo è un problema che esiste e che deve essere raccontato per potere sradicarlo.
Filippo Nigro, lei interpreta il ruolo di un professore che cerca modi alternativi per 'redimere' queste ragazze terribili.
Filippo Nigro: Girando questo film mi è venuta in mente la mia carriera scolastica, la mia esperienza coi professori. Il mio personaggio appartiene a quella categoria di insegnanti che tenta di inventarsi nuovi modi di comunicazione, ma questo spesso può essere pericoloso perché un professore dovrebbe sempre muoversi osservando limiti ben precisi. I giovani hanno bisogno di un professore autoritario che non superi mai una certa barriera.
Stefano Santospago e Valeria Milillo, in Un gioco da ragazze siete i genitori della protagonista Elena. Com'è stato per voi partecipare al film?
Stefano Santospago: In questo film i genitori sono "assenti", ma è proprio questa assenza che porta alle situazioni che vediamo. Nella famiglia della protagonista non c'è nessuno scambio emotivo e trapelano molto vagamente dei sentimenti, ma queste sono persone che censurano i rapporti. E' la mancanza di curiosità, che dovrebbe essere stimolata dai genitori, che stimola tutto questo. I valori sono la voglia di far esplorare alla gente la vita ed andrebbero promossi invece che ignorati.
Valeria Milillo: E' stata un'esperienza molto coinvolgente recitare in questo film, ma anche difficile per una persona come me dalla grande sensibilità e umanità. Con Matteo ho dovuto lavorare infatti sull'assenza di emotività, diventare fredda e distaccata ed è stato qualcosa di non facile da fare.