Recensione Dolls (2002)

Tra i moltissimi interessanti registi asiatici Kitano si mostra Autore in senso pieno di un cinema molto personale ed affascinante.

Le bambole di Kitano

L'outsider del cinema giapponese, Takeshi Kitano, abbandona in questa sua ultima opera, il suo inconfondibile modo di fare cinema, fatto di: astrazione, sarcasmo, violenza improvvisa e desimbolizzata, per dedicarsi ai temi classici del teatro delle marionette giapponese: il Bunraku. E' proprio con una rappresentazione del Bunraku che la pellicola ha inizio: un teatro in cui è inscenato un amore impossibile di fronte alle coercizioni sociali e alle tradizioni, un amore sempre in odor di tragedia. Ma ben presto le marionette diventano reali e vengono rappresentate da tre storie parallele e struggenti, con in sottofondo un Giappone in dialettico contrasto tra tradizione e modernità.

Due amanti divisi dalle differenze sociali, vagabondano verso una impossibile felicità, un vecchio boss yakuza rincontra l'amore della sua giovinezza che ancora lo attende e una pop star, in seguito a un incidente che l'ha sfregiata, scopre la devozione di un fan che si è tolto la vista per lei. Le tre dolorose storie d'amore sono raccontate attraverso una serie di discontinui e suggestivi flashback che guidano l'azione dei protagonisti durante le quattro stagioni, di cui il regista presenta mirabilmente i colori e le simbologie in un rapporto visivamente mozzafiato con la natura giapponese.

I colori, la fotografia ed i costumi sono difatti il fulcro di un film elegante e suntuoso, dove vige l'assoluto dominio dell'immagine sulla parola. Questo estetismo, troppo spesso abbinato al concetto di formalismo di maniera, di cui il film trasborda e tramite il quale Kitano marca la differenza più netta con i codici narrativi della cinematografia occidentale, è insito nel teatro stesso che si vuole rappresentare, quindi inevitabile; è il contatto che la cultura giapponese mantiene con l'uomo della strada. Una storia tradizionale giapponese quindi, ma non un archetipico prodotto filmico giapponese, non un Kurosawa, per intenderci. E si, perché proprio quando si ha la sensazione che Kitano, ci trasporta con grande maestria, verso il terreno della meditazione, della stilizzazione e della tradizione, il suo tocco si fa sempre più presente e caratterizzante, quasi distaccato in ultima istanza, nel proporci con lo stesso registro sintattico la violenza, l'amore, l'ingiustizia e il destino. Un film forse non per molti, ma la speranza è che non sia neanche per molto pochi.