Recensione Ai Weiwei: Never Sorry (2012)

Un artista inviso al sistema, e per questo ridotto (momentaneamente) al silenzio: è questo il protagonista di Alison Klayman che, con le sue opere irriverenti e il suo impegno incessante sui social network, ci restituisce il vero volto di una Cina piena di contraddizioni.

La verità non chiede scusa

Quali sono le responsabilità di un artista? Innanzi tutto, quelle di un qualunque cittadino: vivere onestamente, contribuire allo sviluppo e al miglioramento della propria società, se necessario fare la propria parte per risolvere uno stato di cose ingiusto. In più, un artista ha dalla sua non soltanto una maggiore visibilità, ma anche la padronanza di un linguaggio più efficace di quello dell'uomo medio, capace di scuotere le coscienze, di far discutere senza bisogno di grandi discorsi, ma avvalendosi semplicemente della potenza sintetica dell'immagine.
Universalmente riconosciuto come uno dei più influenti artisti cinesi in circolazione, Ai Weiwei è ben conscio dell'importanza del medium artistico nel mondo della comunicazione contemporanea. Non a caso le sue opere sono sempre state animate da uno spirito curioso e sovversivo, che le elevava, da semplice critica alla società, a spunto di riflessione verso un impegno ulteriore, che prevedesse una partecipazione più attiva di quella richiesta al semplice spettatore o critico. Eppure, le sue fotografie in cui mostra il dito medio a piazza Tienanmen e ad altri simboli del potere costituito, o la sua decisione di disertare le Olimpiadi di Pechino, peraltro dopo aver contribuito al design del celeberrimo Bird's Nest, non hanno mai infastidito le autorità oltre un certo limite. E' solo con la sua iniziativa volta a identificare tutte le vittime del terremoto del Sichuan, primi fra tutti i bambini morti sotto le macerie di scuole costruite senza il minimo criterio di sicurezza, che Ai Weiwei è entrato prepotentemente nel radar del governo. Prima della sua cruciale testimonianza al processo contro un altro dissidente, l'artista è stato picchiato dalla polizia (e ha dovuto subire un'operazione al cervello a causa delle conseguenze di quei pestaggi); poi, è stato obbligato a demolire il proprio studio, e, ovviamente, alla fine è stato anche arrestato, e detenuto in una località segreta per 81 giorni, da cui è stato rilasciato con l'ordine di non allontanarsi da Pechino e non concedere interviste per almeno un anno.

E' con un Ai Weiwei che si rifugia dentro le mura domestiche, ripetendo "I'm sorry" alla stampa accorsa sul posto, che si conclude il film di Alison Klayman. E, tristemente, questo epilogo non sorprende più di tanto, perché la regista aveva ben palesato tutta la portata eversiva del fenomeno Ai Weiwei: portandoci innanzi tutto nella sua factory, a scoprire il percorso dell'opera d'arte, dalla sua nascita, come semplice idea, nella mente del suo creatore, alla sua realizzazione pratica, quasi sempre a opera di altre mani, di artigiani che si autodefiniscono "assassini", perché Weiwei va da loro, dice cosa vuole e, senza domande né polemiche, il tutto viene eseguito. Ma è soprattutto osservando la vita fuori dallo studio che il suo impegno ci colpisce per la sua intelligenza ed importanza. Ai Weiwei ha capito il ruolo cruciale della comunicazione: perché un messaggio, per quanto giusto, non ha valore se non viene percepito, se non è in grado di penetrare nel sentire comune e di stimolare un cambiamento. E il modo migliore per comunicare, oggi, è quello di affidarsi ai social network. Bypassando il firewall che in Cina limita l'utilizzo di Twitter, l'artista documenta ogni sua iniziativa, ogni suo pensiero, corredandolo di foto provocatorie semplicemente perché vere. Per Weiwei la parola d'ordine è trasparenza: è proprio perché parla di fatti reali, dimostrandoli con inequivocabile evidenza, che risulta così scomodo al sistema. Fotografare i poliziotti che lo trattenevano illegalmente, o gli atti di ufficio che attestavano la deposizione di una denuncia contro di loro, la cui causa non avrebbe mai avuto un seguito, è forse la forma d'arte percorsa da Ai Weiwei che più è necessaria alla società contemporanea, come dimostra il fatto che è quella che le dà più fastidio.

Ripercorrendo la storia della sua famiglia, di un padre poeta, fervente comunista ma che nonostante ciò rimase sempre inviso alle autorità, tanto da tentare più volte il suicidio, e di una giovinezza passata a New York, di cui Weiwei documenta ogni manifestazione, ogni protesta, in quanto espressioni di democrazia, la Klayman scava nel profondo del suo protagonista, spiegandoci, almeno per quanto lui stesso intende confessare, cosa lo ha portato a diventare quello che è. E, sebbene il suo privato non sia esente da contraddizioni (Weiwei ha avuto infatti un figlio da una relazione extra coniugale, e, oltre ad ammetterlo candidamente, si assume ogni giorno le responsabilità derivanti dal suo ruolo di padre), il suo impegno pubblico non perde di coerenza. Ai Weiwei, e con lui i suoi sostenitori, sempre più numerosi con il passare del tempo, sono il segno che farsi sentire si può e che, se si continua a lottare, essere zittiti sarà una prospettiva sempre meno probabile: perchè è quando l'arte incontra il pubblico, si fa comunicazione e rinuncia alla sua spocchia accademica, che incontra il suo senso più autentico.

Movieplayer.it

3.0/5