Alle Giornate degli Autori, sezione Notti Veneziane, di Venezia79 è stato presentato un titolo splendidamente peculiare pur partendo da un genere fondamentalmente classico, ovvero La timidezza delle chiome di Valentina Bertani. Trattasi di un coming of age doppio, in cui si racconta della fine dell'adolescenza di due bellissimi gemelli omozigoti con disabilità intellettiva e del loro tentativo di trovare il proprio posto nel mondo e, di conseguenza, anche la posizione migliore nei confronti l'uno dell'altro per poter crescere ed esprimersi al meglio.
Nominato tra i 10 finalisti per il premio al miglior documentario dei David di Donatello 2023, il film è splendido per lavoro con gli attori, scrittura e messa in scena. Caratteristiche che nella loro traduzione pratica ci raccontano di una volontà di sperimentazione piegata ad una chiarezza di idee e consapevolezza del mezzo audiovisivo notevoli (tralasciando un'intelligenza e una sensibilità evidente), nonostante siamo di fronte ad un'opera prima. La regista mantovana, nota per i suoi lavori nel mondo della pubblicità, della moda e della musica, sia per i videoclip che per il documentario su Luciano Ligabue fatto per Fox, non si era infatti ancora mai affacciata nella realtà dei lungometraggi di finzione.
Anche se qui siamo di fronte ad una creatura ibrida da questo punto di vista, concepita e costruita collettivamente, a tratti improvvisata e più volte riscritta in corso d'opera sia con gli sceneggiatori (tanti, oltre la Bertani ci sono Irene Pollini Giolai, Emanuele Milasi e Alessia Rotondo) e con i protagonisti, Benjamin e Joshua Israel.
Di tutto ciò e anche di altro, come la percezione dello spettatore italiano a questo tipo di realtà, il potere terapeutico del cinema anche per chi ci lavora e cosa significa, effettivamente, portare in scena la verità, ne abbiamo parlato con la regista in persona, che ringraziamo e cui facciamo i più sinceri complimenti per il suo film e i migliori auguri per il futuro.
L'incontro con Joshua e Benjamin
Il senso del titolo? È venuto con l'idea del film o è arrivato durante la lavorazione?
Il titolo "La timidezza delle chiome" fa riferimento ad un fenomeno naturale scoperto negli anni '50 che indica la forma che assumono le chiome degli alberi per evitare di toccarsi tra loro: una sorta di mosaico attraverso cui filtra la luce del sole. Ho letto di questo fenomeno su una rivista quando ero ancora all'inizio delle riprese del film e ho pensato che fosse allo stesso tempo poetico e coerente con la storia di due gemelli omozigoti che crescono insieme ma che a un certo punto della loro vita devono separarsi per emanciparsi l'uno dall'altro e trovare la propria identità.
Vorrei sapere del primo incontro con i gemelli e che ruolo hanno avuto nella creazione della storia.
Ho conosciuto Benjamin e Joshua nel 2017 a Milano. Era una giornata di sole e stavo parcheggiando lo scooter lungo i Navigli quando li ho visti. Ho subito pensato sembrassero usciti da un film di Harmony Korine, Larry Clark o Todd Solondz o dai fumetti di Andrea Pazienza e ho quindi provato a fermarli, ma loro hanno continuato a camminare. Ho capito che avevano una disabilità intellettiva perché ho studiato in ambito psico-pedagogico e sul momento li ho lasciati andare, salvo poi rendermi conto del potenziale narrativo insito in una storia in cui due gemelli bellissimi, omozigoti con una disabilità intellettiva interagiscono con il mondo e la realtà. Ho quindi deciso di cercarli e, chiedendo ai negozi circostanti se qualcuno li conoscesse, ho scoperto che erano noti nel quartiere perché i loro genitori erano stati i proprietari del locale storico "Le scimmie".
Dopo essere riuscita a recuperare il numero della mamma, Monica, le ho telefonato senza sapere che lavoro intendessi fare con i suoi figli, ma dicendole solamente che avevo visto Benjamin e Joshua per strada e che li trovavo stupendi. Scoprendo in lei una sponda le ho chiesto di guardare i miei lavori e di telefonarmi nel caso in cui le fosse interessato parlare di un'eventuale collaborazione.
Mi ha richiamata dopo qualche giorno e insieme abbiamo organizzato un incontro a casa della famiglia Israel dove sono andata con i miei sceneggiatori per capire se ci fosse potenziale per un racconto. Non è stato semplice il primo approccio con i gemelli perché non capivano bene chi fossimo e non volevano neanche scendere le scale per parlarci. Poi, inaspettatamente, Benji ci ha chiesto di guardarlo giocare a calcio con Josh e noi li abbiamo seguiti. La partita per me è stata la chiave di volta: ho capito che giocavano secondo regole completamente inventate da loro e mi sono chiesta se avessero adottato questo approccio per tutte le esperienze fatte nella loro vita. Questo a livello pratico nel film ha portato a una collaborazione molto stretta con i gemelli in fase di creazione perché prima di scrivere o girare qualsiasi cosa per me e gli sceneggiatori era necessario comprendere quale fosse il loro punto di vista. Dopo tutto La timidezza delle chiome doveva raccontare la loro storia, non la nostra.
Com'è stato il lavoro con questi due attori così peculiari e quanto sono cambiati nel corso delle riprese?
La prima regola che ho dato ai gemelli è stata "mai guardare la macchina da presa". Per evitare che lo facessero ho inventato un gioco, dicendo loro che lei era come MEDUSA e che dall'azione e allo stop aveva il potere di pietrificare gli attori sul set. Ovviamente nessuno dei due voleva perdere quindi non hanno guardato in macchina quasi mai sin da subito. Josh e Benji hanno un approccio molto differente a livello di acting: Josh è istintivo, spontaneo e con una naturale tendenza a improvvisare che si è rivelata utilissima per il film; mentre Benji è molto rispettoso delle indicazioni, all'inizio quasi titubante, salvo poi imparare con l'esperienza e con le prove a gestire i tempi e gli spazi del set.
Le loro caratteristiche, così complementari, hanno creato l'alchimia che desideravo per il film.
Come siete riuscite ad entrare così in contatto con loro e con il loro mondo?
L'unico modo possibile per entrare in contatto in modo profondo con le persone è frequentandole e imparare a volergli bene. Quindi così abbiamo fatto. Io, gli sceneggiatori, la stylist e il direttore della fotografia siamo usciti con Benji e Josh durante i cinque anni di lavorazione del film ogni settimana, andando con loro al luna park, in sala giochi, a vedere i film horror. Ogni uscita per noi rappresentava una nuova occasione per comprendere meglio il loro modo di pensare e di confrontarsi con la realtà.
Realtà e fiction
Mi ha colpito un'affermazione maldestra di uno spettatore durante una proiezione del vostro film, ovvero che i due protagonisti non avessero, a suo dire, un deficit cognitivo. Come se non lo manifestassero, come se non fosse importante. Credo sia molto indicativa a suo modo. Che pensi di questa considerazione?
Il focus de La timidezza delle chiome non è la disabilità intellettiva dei gemelli Israel, ma il racconto per immagini del loro coming of age. Credo che questa affermazione maldestra indichi semplicemente la sensazione degli spettatori nel trovarsi di fronte a un racconto di formazione in cui Benjamin e Joshua si mostrano al pubblico senza filtri e senza censure, ma semplicemente come due adolescenti frustrati e in continua evoluzione osservati da molto vicino. Credo anche che in generale siamo poco abituati a frequentare persone con disabilità intellettiva e che quindi La timidezza delle chiome possa risultare spiazzante perché durante la visione si acquisisce la consapevolezza che Benjamin e Joshua vivono gli stessi conflitti interiori dei loro coetanei, mandando un po' in crisi anche il concetto di "diversità", dato che in realtà ciascuno di noi è diverso dagli altri.
Siete stati eccezionali nel creare una pellicola che permettesse allo spettatore di esperire il modo di percepire la realtà dei ragazzi, costruendola anche con un ritmo poco armonioso. Perché era importante?
Il ritmo del film segue i tempi di Benjamin e Joshua essendo un racconto character driven e loro vivono la realtà come tutti gli adolescenti che hanno fretta di crescere e di fare esperienze, ma che poi si trovano alla fine del liceo imprigionati in un limbo in cui sembra non succedere niente, bloccati in un potenziale inespresso, in una provincia che appare immobile. Quando tutto sembra ripartire ecco che arriva la pandemia che toglie il respiro e chiude le vie di fuga. Poi lentamente si ricomincia ad uscire, torna la primavera, Milano appare bella e frenetica e si può anche andare al luna park. Questo andamento irregolare nel film è raccontato anche attraverso un camera work molto preciso: la macchina da presa è in qualche modo trackata ai movimenti e ai pensieri dei gemelli, si muove e si ferma insieme a loro. Mi piace pensare di avere messo in scena una coreografia dei sentimenti.
Come avete gestito la scrittura ibrida tra realtà e fiction nel corso della storia, compresa la parte in Israele?
Io e il mio team abbiamo sperimentato una messa in scena basata fondamentalmente sull'improvvisazione e sul brain storming fatto insieme ai protagonisti del film. Tutto ciò che è stato messo in scena nel film è un ibrido tra realtà e trasposizione cinematografica di esperienze che abbiamo vissuto insieme ai gemelli. In questo modo Benji e Josh sono sì persone reali, ma allo stesso tempo sono attori che mettono in scena la propria esistenza. Ecco perché sono anche coautori, da subito liberi di modificare i dialoghi a modo loro e di muoversi negli spazi in modo naturale senza rispettare posizioni prestabilite. La regia si è adattata alle loro movenze, alle loro posizioni, i sottotitoli sono stati messi a supporto del loro personale modo di parlare perché chiedere loro di scandire le parole sarebbe stato fuori luogo: sono gli spettatori a dovere entrare nel mondo di Benji e Josh, non il contrario.
La parte di shooting in Israele è invece totalmente reale perché non ho avuto modo di avere controllo praticamente su nulla. Io, il direttore della fotografia che ha realizzato quella parte del film (Lele Mestriner) e la sceneggiatrice che è partita con noi (Alessia Rotondo) eravamo sempre all'erta, pronti a capire se una situazione avesse un potenziale. Ci siamo infatti immediatamente accorti del disagio di Benjamin, il suo sentirsi fuori luogo e che avrebbe fatto di tutto per andarsene, e dello stato d'animo opposto di Josh, che ha capito come quella potesse essere la sua occasione per eccellere, resistere e brillare di luce propria senza essere oscurato dal fratello. Cioè che scostandosi per un istante come fanno gli alberi per non farsi ombra a vicenda, avrebbe trovato finalmente un suo spazio.
Vorrei sapere quanto è importante per te la verità.
Siamo portati a pensare in modo erroneo che un fatto o un racconto sia vero o falso, ma spesso il vero o falso viene costruito su delle basi soggettive, ovvero diverse da individuo a individuo. Ognuno interpreta un fatto in modo diverso dagli altri. Per me quindi ciò che conta non può essere la verità, quanto il punto di vista attraverso cui i fatti vengono raccontati.
Il cinema come luogo di connessione
Cosa ti attrae delle persone che percepiscono la realtà in modo "diverso"? Penso soprattutto a Michela Scaramuzza, la splendida interprete della ragazza con deficit uditivo.
Ho visto Michela per la prima volta in un video sul web in cui ballava in un modo talmente personale da lasciarmi incantata: sembrava che il suo corpo fosse connesso alla melodia in un modo che non mi riuscivo a spiegare. Non ballava a tempo di musica, sembrava che fosse la musica a comporsi guidata dal suo corpo. Ho chiesto alla casting director del film (Alessia Tonellotto) di contattarla e solo quando lei è riuscita a comunicare con la madre della ragazza abbiamo scoperto che Michela è ipoudente. Ho capito quindi che interpretava i movimenti in un modo tutto suo perché seguiva le vibrazioni che la musica produceva. Ho deciso di coinvolgerla nel film perché mi interessava raccontare il punto di vista fuori dall'ordinario di chi percepisce la realtà in modo personale.
Si parla spesso della forza terapeutica del cinema per lo spettatore, poco per chi lavora ad un film. Per te è stata terapeutica questa avventura?
Il film è stato terapeutico soprattutto per Benjamin e Joshua. Benji dice che questa esperienza lo ha fatto crescere moltissimo e che gli ha permesso di capire ciò che vuole fare nella vita, cioè l'attore. Sul set per i gemelli è stato possibile sperimentare le proprie potenzialità. Insieme alla crew abbiamo formato un gruppo affiatato e dato loro un senso di appartenenza e di comunanza di intenti tale da rivelarsi fondamentale per la loro crescita come attori e come esseri umani.
Perché era importante terminare la storia con una separazione?
La timidezza delle chiome racconta la storia di formazione di due gemelli omozigoti ed è giusto che alla fine del film Benji e Josh scelgano di intraprendere strade diverse perché diventare grandi significa anche dovercela fare da soli.
Progetti futuri.
Sto lavorando insieme a mia sorella Nicole e alla sceneggiatrice Maria Sole Limodio ad un nuovo lungometraggio dal titolo "Le bambine": una storia di formazione al contrario ambientata negli anni '90 basata su un'esperienza vissuta da me e mia sorella quando eravamo piccole. Il progetto ha appena ottenuto i contributi selettivi del Mic e sono davvero felice di iniziare questa nuova avventura. Grazie a Benjamin e Joshua ho imparato a lavorare sull'improvvisazione e dato che le protagoniste del film saranno tre bambine di 8, 9 e 10 anni potrò utilizzare questo bagaglio di esperienze per lavorare in modo libero e creativo sul nuovo set.