Recensione Manderlay (2005)

E' un film riuscito solo in parte, questo secondo episodio della "trilogia americana" del regista danese: qualche lungaggine narrativa e scelte estetiche discutibili ne smorzano in parte il messaggio, ancora una volta comunque in grado di suscitare riflessioni e discussioni.

La schiavitù di Von Trier

Sono passati diversi mesi da quando la giovane Grace ha abbandonato Dogville, con il suo verdetto inappellabile: se c'è una città senza la quale il mondo sarebbe migliore, quella è proprio Dogville. Dopo un inverno trascorso alla ricerca di un posto in cui stabilirsi, Grace, suo padre e il loro gruppo di gangster si dirigono a sud, giungendo in Alabama; qui, il gruppo si ferma casualmente davanti a una piantagione chiusa da un cancello, da cui vedono fuggire una donna di colore. Incuriosita dalla circostanza, Grace parla con la donna e scopre un'incredibile verità: a Manderlay, questo il nome del piccolo centro, ci sono ancora padroni bianchi e schiavi neri, nonostante l'abolizione della schiavitù avvenuta settant'anni prima. Indignata, nonostante gli ammonimenti del padre, la giovane decide di fermarsi nella cittadina per porre fine a questa ingiustizia.

Secondo film della "trilogia americana" di Lars Von Trier, legato al precedente Dogville dal personaggio di Grace, questo Manderlay riprende le modalità narrative ed estetiche del film precedente, riproponendone la suddivisione in capitoli e soprattutto il set in cui si svolge l'azione, un semplice palco teatrale con quasi tutti gli elementi scenografici lasciati all'immaginazione dello spettatore. Vale la pena soffermarsi su questa scelta, che ai più apparirà scontata (anche perché annunciata) ma che fa sorgere comunque qualche legittimo dubbio. In Dogville, l'assenza di scenografia aveva un significato "programmatico" preciso, rappresentava idealmente la fine del realismo del Dogma con un film che ne era la stessa negazione, oltre ad avere una valenza simbolica ben definita (la messa a nudo della meschinità degli abitanti della città dietro una patina amichevole dichiaratamente fittizia). La sceneggiatura giocava abilmente con questo elemento, sottolineando la presenza di paesaggi e luoghi impossibili da vedere per lo spettatore: è indubbio che Dogville, se girato con una scenografia classica, sarebbe stato un film diverso, probabilmente meno riuscito. Ora, la domanda è: si può dire la stessa cosa di Manderlay? La risposta, a parere di chi scrive, è negativa: la scelta di rendere invisibile la scenografia sa qui molto più di "maniera", slegata com'è da qualsiasi necessità narrativa ma anche puramente estetica (la negazione del Dogma e dello stesso concetto di cinema come arte visiva è qualcosa che già era stato affrontato, e meglio, nel film precedente).

La Grace di questo film (interpretata da un'efficace Bryce Dallas Howard), è un personaggio molto diverso da quello conosciuto in Dogville: il suo nichilistico, crudele riscatto (che è poi quello di tutte le antieroine di Von Trier) è stato già consumato, la donna che troviamo qui è molto più fredda, risoluta, ma animata dall'identica volontà di capire e intervenire in ciò che le sta intorno, anche se con mezzi e modalità diverse. Il film non affonda nella materia del melò come il precedente, ma raffredda volutamente le atmosfere, narrando il tutto in modo più distaccato, quasi che l'idea scientifica, quasi "clinica" di cinema del regista danese abbia qui trovato una dimensione più consona, liberandosi degli orpelli di quell'approccio patetico (bandita ogni accezione negativa del termine) alla narrazione che nei film precedenti aveva già detto praticamente tutto. Un rinnovamento deciso, quindi, necessario in virtù dell'evoluzione del personaggio ma anche della particolarità del tema trattato, di cui l'ambiguità è componente essenziale: non è un caso, infatti, che il plot del film sia stato parzialmente ispirato dalla prefazione (scritta da Jean Paulham) al celebre romanzo Histoire d'O, intitolata non a caso Happiness in slavery.

Ciò che finisce per nuocere al film, narrativamente parlando, è però la notevole lunghezza, che in questo caso non viene supportata, come nel film precedente, da una sceneggiatura in grado di "reggere l'urto": la presenza di varie lungaggini narrative sparse qua e là finisce per far perdere al film parte del suo potenziale mordente, e per annacquare un po' l'indubbio interesse, e la notevole problematicità, del messaggio che ne scaturisce. Alla prova (più che convincente data l'evoluzione che il personaggio ha subito) della già citata Bryce Dallas Howard, si affiancano quelle di un ottimo Willem Dafoe nel ruolo dello sgradevole padre di Grace, e di un Danny Glover che dà al personaggio dello schiavo anziano tutto il carisma di cui necessita.

Possiamo dire che Von Trier, con questo film, ha raggiunto ancora una volta lo scopo di colpire lo spettatore e di suscitare riflessioni che si protraggono ben oltre la visione, pur "asciugando" la narrazione e distaccandosi, stavolta, dalla materia trattata. Il film risulta tuttavia meno equilibrato dei precedenti, e va detto che una maggior cura in fase di sceneggiatura gli avrebbe sicuramente giovato: a questo vanno aggiunte le perplessità di chi scrive riguardo alla scelta scenografica mutuata dal film precedente, e in particolare al modo in cui essa, nel caso specifico, (non) viene giustificata. Resta comunque la curiosità di vedere come il regista danese concluderà la sua trilogia, anche dopo un film riuscito solo in parte come questo: per una persona che non è mai stata negli Stati Uniti, Von Trier dimostra un interesse, e una capacità di mettere sullo schermo il "lato oscuro" del sogno americano, sicuramente non da poco. Attendiamo quindi fiduciosi.

Movieplayer.it

3.0/5