Mary Mapes è stata una delle più importanti produttrici di news televisive degli anni Zero nel panorama dei network statunitensi. Tra le altre cose, vinse il prestigioso Peabody Award per aver portato alla conoscenza del pubblico le atrocità commesse dall'esercito americano ad Abu Ghraib.
Nel 2005, dopo essere stata licenziata dalla CBS per il suo ruolo in uno scandalo legato a un servizio di 60 Minutes sul tema controverso della carriera militare di George W. Bush, la Mapes - che da allora non è più tornata a lavorare nell'ambiente del giornalismo televisivo - pubblicò il libro Truth and Duty: The Press, the President, and the Privilege of Power. Il libro da cui, dieci anni dopo, James Vanderbilt ha tratto il suo esordio alla regia, Truth.
La battaglia della verità
Ci sono molti elementi che sorprendono in Truth, ma uno di essi è l'atteggiamento nel complesso piuttosto severo che ha nei confronti della sua eroina; d'altronde la stessa Mapes, negli anni, ha sempre ammesso i propri errori, pur rimanendo convinta nel profondo della storia che sostenne, e di aver fatto il suo dovere: nei confronti del pubblico e nei confronti della verità. Ma la verità, in molti casi, non è affatto la luce che squarcia inevitabilmente le coltri dell'ignoranza. È un'entità ambigua, insidiosa, qualche volta inafferrabile. La verità oggettiva si perde nelle opinioni, nelle conversazioni, nei ricordi, nei voltafaccia e nei raggiri. Alla fine la verità è quella di chi - con metodi e mezzi di varia natura - riesce ad essere più convincente. O ha il potere di costringere gli altri a tacere. Ma il fatto che la verità sia elusiva non ci autorizza a rinunciare alla sua ricerca.
Durante la campagna presidenziale Bush vs. Kerry, la manipolazione della verità da parte dei media allo scopo di colpire l'uno o l'altro candidato fu una realtà evidente. James Vanderbilt, anche autore dello script di Truth (nonché autore dell'eccellente sceneggiatura di Zodiac di David Fincher, oltre che di The Amazing Spider-Man e The Amazing Spider-Man 2: Il Potere di Electro) prova a raccontarci perché, forse, questo non è il caso di Mary Mapes, e perché la sua caduta è stata una sconfitta da cui il giornalismo non si è ancora ripreso.
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La passione, la responsabilità, l'amicizia
Lo fa curando uno script che forse ci mette qualche minuto di troppo a entrare nel vivo: Vanderbilt si prende infatti il suo tempo per presentare la storia con dovizia di dettagli, anche per scongiurare accuse simili a quelle che demolirono la sua eroina. È evidente che la Mapes sbaglia: per passione, per zelo, ma anche per la fretta di battere una deadline. È chiaro anche quanto sia importante per il cineasta non ancora quarantenne introdurre in maniera attenta ed esauriente i suoi personaggi: non è solo la donna e la professionista Mary Mapes che dobbiamo conoscere, è anche il rapporto di affetto e fiducia reciproca che la lega al suo anchor Dan Rather - che in seguito allo scandalo del 2004 abbandonò la CBS - che è cruciale ai fini del racconto. Perché la responsabilità di Mary Mapes nell'aver proposto al suo pubblico una tesi senza verificare adeguatamente l'autenticità delle prove non è solo nei confronti dell'opinione pubblica, ma anche nei confronti del collega, amico e mentore che tale condotta mise in grave imbarazzo.
Non potrebbero essere più azzeccate (ma come potrebbe essere altrimenti con interpreti del genere?) le scelte di affidare il ruolo della Mapes a Cate Blanchett e quello di Rather a Robert Redford. La Blanchett è la solita forza della natura: un'attrice che ha il carisma e la versatilità delle più grandi di tutti i tempi, e che incarna un personaggio controverso con tutta la grinta, la sensibilità, la purezza umanamente concepibili. Quanto a Redford, che per gran parte del film potrebbe sembrare un po' sacrificato, anche qui, come in All Is Lost - Tutto è perduto (anche se, certo, questo ruolo deve essere stato un pelo meno gravoso fisicamente) è un simbolo. Un simbolo di impegno e integrità, a cui spetta il compito di ricordarci il ruolo autentico - e perduto - del giornalismo: una responsabilità civile, non uno dei tanti strumenti al servizio dell'economia corporativa.
Redazioni nell'occhio del ciclone
Pulito, rigoroso e privo di guizzi registici, Truth manca forse del vigore narrativo e della vena ironica di quello che, dal punto di vista dell'approccio e dei contenuti, ne è un parente piuttosto stretto: la serie TV di Aaron Sorkin The Newsroom, conclusasi lo scorso anno dopo sole tre stagioni su HBO. D'altro canto, a convincere nel film di Vandebilt è il piede lieve sul pedale della retorica e l'atteggiamento equilibrato e trasparente nei confronti dei personaggi. Il risultato è un film solido e appassionante in grado di indurci a riflettere - anche alla luce dei fatti di cronaca politica delle ultime settimane - sul rapporto tra l'amministrazione pubblica e i mezzi di comunicazione, sull'importanza dell'indipendenza dell'informazione e sulla nobiltà dell'aspirazione alla verità.
Movieplayer.it
3.5/5