L'acqua che brucia è un paradosso. Il mare in fiamme è quasi inimmaginabile. Non nel Golfo del Messico, non in quell'infausto 20 aprile 2010 quando la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon esplose, inghiottita dalle fiamme, dando il via ad un lunghissimo sversamento di petrolio finito ben 106 giorni dopo. L'incendio fu indomabile, il fumo densissimo, la piattaforma bruciò per due giorni per poi inabissarsi sul fondo marino. I danni economici di quel disastro impallidiscono davanti all'impatto ambientale devastante e soprattutto di fronte agli 11 morti uccisi da un'esplosione improvvisa (e imprevedibile) o, forse, dalla fretta di chiudere un lungo lavoro senza le dovute accortezze.
Dopo aver giocato a battaglie navali con Battleship, il regista Peter Berg ritrova l'impegno e torna in mare aperto con nuovi toni e altri obiettivi, raccontando con stile crudo il più grande disastro ambientale nella storia degli Stati Uniti d'America. Una tragedia il cui strascico è ampio e vischioso, con conseguenze a lungo termine sulla salute delle persone e impatti devastanti sull'ambiente, senza dimenticare il dibattito socio-politico ed economico pieno di polemiche che ne è scaturito. A Berg, però, non interessa nulla di tutto questo; a lui interessa solo e soltanto la gente della Deepwater e il racconto di quelle ore subito precedenti e successive all'esplosione. Per questo Deepwater - Inferno sull'oceano si apre con le deposizioni dei superstiti, ma non ne sentiamo solo la voci, perché lo schermo è nero, come quel petrolio da cui tutto è nato e in cui tutto è naufragato.
Quando l'acqua prese fuoco
E allora chi sono gli uomini e le donne della Deepwater Horizon? Se il resto della "ciurma" ci viene presentato una volta arrivati sulla piattaforma, per Mike Williams è diverso. Berg ci invita tra le mura di casa sua e ce ne fa annusare la quotidianità: l'amore ancora vivo con sua moglie, l'affetto nei confronti della figlia e poi il lavoro che lo porta lontano. Il primo merito di Deepwater sta proprio nell'affidarsi ad un uomo normale (per certi tratti anche marginale), senza fare del suo protagonista un eroe ingombrante o ccontentandosi di ammirare le gesta del singolo alle prese con una missione più grande di lui. Qui è l'evento ad essere centrale, lui sì davvero enorme e protagonista, a dominare personaggi che non vengono presentati tutti a dovere e per i quali, ovviamente, è difficile provare piena e sincera empatia quando in pericolo.
Scisso in tre atti ben distinti (la presentazione, il disastro, il salvataggio), il film di Berg arranca nella prima parte per poi guadagnare terreno, e lo fa quando si mostra finalmente per quel che è: un disaster movie claustrofobico, teso, tutto giocato sull'incombere e sullo scatenarsi violento di una catastrofe che schiaccia persone e personaggi. La claustrofobia proviene dalla notte, dall'isolamento in quelle acque deserte e poi dagli spazi angusti, stretti, con l'equipaggio che fugge e si dimena tra schizzi di fanghiglia e tubi dissestati. Caotico senza essere confusionario e sostenuto da una regia e da un montaggio funzionali ad una messa in scena veemente, Deepwater non verrà ricordato per la sua audacia, ma per il suo senso del dovere, quello del cinema di testimonianza e di cordoglio, che non vuole dimenticare affatto le sue cicatrici ancora aperte.
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Strati uniti d'America
Un'elaborazione del lutto lunga quasi 100 minuti, l'ennesima commemorazione visiva partorita dal cinema americano, sempre attento alla memoria dei suoi caduti. Il film di Berg non nasconde mai il suo lato più classico, quasi da disaster movie anni Novanta, condito da una serie di elementi retorici, forse evitabili. Come le bandiere che sventolano dinanzi alle fiamme o come l'ennesima donna che attende con apprensione il ritorno del suo uomo davanti ad uno schermo o con una telefono in mano. Ma se Kate Hudson fa la parte di Penelope, Mark Wahlberg scansa la parte dell'Ulisse di turno. Come detto, sulla Deepwater Horizon non c'è posto per eroi da glorificare o da esibire. Ed è proprio questo il pregio più grande di un film pieno di crudo realismo, senza duri, senza leader, ma solo con persone (coraggiose e codarde) che vogliono salvarsi la vita e tornare a casa.
E nemmeno i volti iconici di Kurt Russell e John Malkovich fanno cadere Berg nella tentazione di costruire attorno a loro dei personaggi sopra le righe. In Deepwater è tutto sommesso nonostante le esplosioni, come se il rispetto per i caduti sia troppo grande per concedere al cinema il lusso di ricamarci sopra qualcosa di straordinario. È forte la tentazione di definirlo "un film fuori tempo massimo", già visto vent'anni fa, ma le tragedie accadono, negli anni Novanta, come nel 2010 e come domani. E il cinema americano si sente spesso in dovere di raccontare la realtà con i meccanismi nella finzione, di saldare la morte con il suo ricordo, la tragedia con la sua memoria, come tanti strati uniti una volta per tutte. Succede e succederà sempre. Che piaccia, oppure no.
Movieplayer.it
3.0/5