Una storia o un nome poco conosciuti, un libro per riportarne alla luce azioni e peso sulla società o uno specifico settore e poi un film, riproduzione tridimensionale e artistica di quella stessa storia. Un iter che sembra essere diventato la prassi, il background logico di buona parte dei biopic che ogni anno, con risultati eterogenei, si susseguono in sala.
Non fa eccezione L'uomo che vide l'infinito, pellicola biografica diretta da Matthew Brown basata sulla vera storia di Srinivasa Ramanujan (Dev Patel), il matematico indiano che conquistò Cambridge. Presentato in anteprima durante l'ultima edizione del Bif&st dopo aver esordito sugli schermi del Toronto International Film Festival e del newyorchese Tribeca, il film, trae ispirazione dalla biografia L'uomo che vide l'infinito - la vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica scritta nel 2003 da Robert Kanigel. Il giovane autodidatta che rivoluzionò la scienza dei numeri conquistandosi un posto di diritto al fianco dei più noti Leonardo Fibonacci o Isaac Newton e le cui formule, ritrovate nel 1976 in un taccuino "perduto", vengono oggi applicate per lo studio dei buchi neri. Matthew Brown rende omaggio alla sua storia e alla dolorosa e umiliante lotta per venire accettato dai restii e razzisti Fellow del Trinity College, indignati e turbati dall'idea che un "Gunga Din - Din" potesse essere un matematico o anche solo un uomo migliore di loro - inserendo la narrazione all'interno del contesto temporale nel quale prende forma: lo scoppio e gli esiti della Prima Guerra Mondiale.
Un'amicizia legata da formule e calcoli
La prima parte del film è concentrata nel descrivere la vita di Ramanujan in India, divisa tra una madre possessiva, una giovane moglie amata quanto sconosciuta e il tentativo di trovare un lavoro che gli permettesse di mostrare le sue doti matematiche. Cresciuto in estrema povertà a Madras e devoto alla dea indù Namagiri, il giovane è convinto che le sue sbalorditive capacità matematiche altro non siano che un dono divino offertogli durante il sonno o le preghiere, lui che non sapeva spiegare da dove arrivassero quelle formule rivoluzionarie e complesse. La sua determinazione lo spinge a scrivere una lettera a Godfrey Harold Hardy (Jeremy Irons), professore (e suo futuro mentore) del Trinity College di Cambridge che, dopo l'iniziale convinzione di trovarsi tra le mani uno scherzo, farà ammettere il ragazzo nella prestigiosa università per far maturare quel talento cristallino. Sfidando le regole della sua casta che vietava di viaggiare via mare, Ramanujan, lascia l'India e i suoi affetti per seguire il suo destino.
Brown mostra quindi il percorso travagliato che dagli iniziali pregiudizi subiti porterà, almeno in parte, ad una forma felice e riuscita di integrazione ravvisabile proprio nell'inusuale amicizia tra il matematico autodidatta e G.H. Hardy. Ma quello che si avverte è un lavoro che rimane in superficie, che mostra ma non affonda né nella sfera "sentimentale" né in quella propriamente matematica. Vediamo, ad esempio, Ramanujan e la moglie Janaki (Davika Bhise), che nella realtà non era sua coetanea ma una bambina, soffrire per la distanza forzata senza però percepirne il dolore, assistiamo alla rivoluzionaria nascita della teoria delle partizioni ma non ce ne viene spiegata l'importanza. Tutto è accennato ma nulla è sviscerato dalla regia uniforme di Browne, qui alla sua seconda esperienza dietro la macchina da presa dopo Ropewalk del 2000, e quello che rimane è la consapevolezza delle "buone intenzioni" che non trovano la giusta forma per esprimersi e raccontare al meglio l'incredibile storia del matematico.
Le insidie del biopic
Un genere che non sembra attraversare crisi quello dei film biografici ma ricco di insidie che ne hanno inficiato la riuscita complessiva in più di un'occasione. Limitandoci anche solo ad accennare ai titoli di alcune delle pellicole più o meno recenti dedicate alla vite e alle scoperte di matematici, scienziati o inventori, da The Imitation Game a A Beautiful Mind, è facile individuare gli elementi che fanno de L'uomo che vide l'infinito un biopic non del tutto riuscito. Nonostante l'ottima fotografia di Larry Smith o i grandi nomi coinvolti che oltre a Dev Patel e Jeremy Irons coinvolgono Toby Jones, Stephen Fry e Jeremy Northam, il film, sebbene incentrato a raccontare Srinivasa Ramanujan attraverso una parentesi storica e una chiave precisa, quella dell'amicizia con Hardy, soffre di una sceneggiatura e di una regia che non osano a sufficienza e che, in più di un'occasione, fanno pensare ad un prodotto di stampo televisivo. Se paragonato ad un altro recente biopic (sebbene la definizione appaia riduttiva) come Steve Jobs di Danny Boyle, capace di raccontare il genio e i tormenti personali dell'inventore di Cupertino scomponendo e dividendo la sceneggiatura in tre blocchi, o al più lineare La Teoria del Tutto di James Marsh, ecco che L'uomo che vide l'infinito mostra, invece, i suoi limiti che non risiedono affatto nella storia raccontata ma nella formula narrativo/registica utilizzata per farlo.
Movieplayer.it
2.0/5