La purezza dei fiori strappati
La Spagna ricorda, mette mano all'orrore del passato e fa i conti con gli errori che ha consumato. Emilio Martínez Lázaro torna al termine della Guerra Civile, nell'aprile del 1939, per raccontare un episodio di atrocità che diventa tristemente ordinario quando la dittatura s'abbatte su un paese in difficoltà. Una storia tutta al femminile, come anticipato dal titolo Le tredici rose, in un contesto dove la donna non ha alcun valore, e che assume contorni ancora più inquietanti data la giovane età delle protagoniste, acerbe e confuse in una società sbagliata, strozzata dal regime franchista, che le condanna a morte senza un reale motivo. Sono giovani che prima ancora di sposare un ideale politico, hanno l'intelligenza di riconoscere il bene dal male e il coraggio di non piegarsi ai tiranni, andando invece ad occuparsi di chi, come anziani e orfani, ha un gran bisogno d'aiuto. Per chi ha tutta l'intenzione di reprimere le voci dissidenti diventano però carne da macello, fiori da strappare da un giardino che si vuol mantenere spoglio.
I due sceneggiatori, Ignacio Martínez de Pisón e Barbara Di Girolamo scelgono sapientemente di non appesantire il film con precisazioni storiche, lasciando che a spiegare quel periodo siano prima le bombe che cadono, poi i pestaggi in strada dei falangisti, l'annichilimento messo in pratica dagli interrogatori, le agghiaccianti sentenze senza senso che perdono di vista ogni barlume di decenza. L'intento è chiaramente quello di portare l'attenzione sul capitolo umano della vicenda e sulla disumanità che va a bruciarlo. Alle puntualizzazioni sulla Storia, Lázaro preferisce il concentrarsi sulle rose che sbocciano, sulle ragazze in fiore che con entusiasmo e dignità provano a non sottomettersi alle ingiustizie, alzando i pugni al cielo. Difficile concedere lo stesso spazio ad ognuna delle tredici giovani che finiranno sbranate da un sistema malato che le rapisce, le annienta, le consuma in carcere e poi ruba loro la vita con un colpo di fucile. Eppure la staffetta tra i volti puliti delle protagoniste, i loro sorrisi e le lacrime, illumina lo schermo e imbastisce il proprio intento: muovere lo spettatore senza l'ansia di commuoverlo, instillare in lui una punta di vergogna, per non dimenticare. Il regista spagnolo mantiene nell'ordinarietà la sua direzione, proponendo un film di corpi piuttosto che d'azione, tanto che finisce con l'ammassarli uno sopra l'altro nelle scene in carcere, tra le migliori della pellicola. A risentirne è il pathos, nonostante l'enfasi di una colonna sonora eccessiva deputata a montare la trepidazione in ogni sequenza. A rendere più agevole il lavoro di Lázaro è un cast all'altezza della situazione, che può contare tra gli altri anche su tre attori italiani che coronano questa co-produzione italo-spagnola del film: Gabriella Pession si lascia apprezzare nel ruolo di adolescente innocente nel vortice del ciclone, Adriano Giannini dà vita a un personaggio viscido che ben esprime la sua perversità, ed Enrico Lo Verso riesce nelle poche scene in cui è chiamato in causa a fornire una prova convincente basata tutta sulle grandi capacità emozionali del suo volto e della sua mimica. Sebbene vengano messe a segno una serie di ammirevoli stoccate ai danni di quella Chiesa palesemente vicina al regime, desta invece qualche perplessità il lavoro di equilibrismo finale, quando viene fatta recitare con tanto di sguardo in macchina la lettera di una madre al figlio, che in un simile contesto funge un po' da riabilitazione cattolica della questione. L'obiettivo di tirar fuori dall'oblio una così straziante vicenda è però raggiunto. Resta all'uomo capire cosa ci sia ancora da imparare da simili barbarie.