Lo hanno definito un "western alpino" con pistoleri in sella a un asino invece che a cavallo e sullo sfondo le Dolomiti al posto delle sterminate praterie dell'ovest.
Il bottino? Nessuna caccia all'uomo, né lingotti d'oro da scovare: questa volta la taglia è su un orso, creatura mostruosa e allo stesso tempo primordiale, che si aggira a valle minacciando gli allevatori della zona.
Il gruppo di lavoro dietro a La pelle dell'orso, liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Matteo Righetto, è ben noto agli appassionati di un cinema fatto di territorio e tradizioni: si chiama Jolefilm, è nata a Padova nel 1999 e negli anni ha dato vita al meglio del documentario d'autore da Andrea Segre a Pier Paolo Giarolo, passando per Costanza Quatriglio e Marco Segato. Lo stesso che oggi con questo film segna il suo esordio alla regia in un'opera di finzione in compagnia di un interprete poliedrico come Marco Paolini (nel ruolo del protagonista), anche lui parte integrante a attiva della Jolefilm.
Un western alpino: l'incursione nel cinema di genere
Ambientato in un villaggio nel cuore delle Dolomiti, il film è un'incursione nel racconto di formazione grazie al cammino disegnato attorno alla figura del protagonista adolescente, Domenico, dodici anni, figlio di Pietro (Marco Paolini), un uomo solitario e consumato dall'alcol. Quando Pietro accetta in cambio di denaro di dare la caccia all'orso che sta seminando il panico tra la comunità, Domenico deciderà di seguirlo. Un viaggio verso l'ignoto al termine del quale padre e figlio, si saranno trasformati in qualcos'altro rispetto ai due estranei che erano all'inizio di questa avventura.
"Quando abbiamo cominciato a riscrivere il libro ci siamo impegnati molto per riavvicinare i personaggi del padre e dell'orso all'idea di un'epoca che sta per finire: siamo negli anni '50 e il mondo, quello del dopo guerra, sta cambiando, il futuro è incerto e non c è più spazio né per l'uomo né per la natura selvaggia", racconta Segato all'incontro con la stampa durante la presentazione romana del film, che sposta l'ambientazione originaria della storia dagli anni '60 agli anni '50 nell'immediato dopoguerra, offrendo spunti di riflessione altrimenti impensabili. Mentre l'opera di riscrittura portata avanti da Paolini e Segato insieme alla storica firma di Enzo Monteleone, introduce alcuni elementi tipici del western prestando così ancora una volta il fianco ad una rinata vitalità del cinema di genere in Italia.
"L'idea del genere è partita ancora prima del film. - ci tiene a precisare il regista - Volevamo fare un cinema che andasse incontro al pubblico senza essere svilito dal 'basso genere' e fare un prodotto di intrattenimento che non rinunciasse alla qualità tipica di certo cinema d'autore. Oggi è necessario riportare lo spettatore al cinema italiano e noi per farlo siamo partiti dalla passione comune per il western e da una serie di meccanismi narrativi già ben consolidati, provvedendo poi ad aggiornare e a riproporre temi classici e idee universali come quella ad esempio del rapporto padre-figlio".
Gli piaceva soprattutto l'idea di fare un film che per una volta potesse affrancarsi dalla pratica ormai diffusa di raccontare l'Italia di oggi e che nelle intenzioni di Paolini sarebbe dovuto essere forse molto più western: "Un western ha dei cambi di ritmo: si va piano e poi improvvisamente si galoppa. L'unico che va veramente forte in salita è l'orso, ma non riesci a stargli dietro neanche con una telecamera. - spiega - Mentre giravamo incombeva sull'altopiano di Asiago la minaccia di un orso serial killer di bestiame, che sulla cronaca locale invadeva quotidianamente le prime pagine e il fatto che noi girassimo con un orso non era considerato rassicurante. Poi un giorno, una giovane geologa che da tempo ormai aveva deciso di dedicarsi all'allevamento di pecore merinos, mi raccontò l'incursione della 'bestia' in una delle sue attività e la sensazione che mi rimase dentro fu quella dell'orso come un tuono in salita, della sua potenza, della capacità di travolgere tutto e tutti correndo in salita. Il potenziale della 'corsa' c'era, ma non potevamo correre il rischio di perderlo in mezzo ai boschi".
'Il cacciatore' di Marco Paolini
Così ci si è concentrati sulle sfumature del racconto, su dialoghi essenziali e minimi che si accordassero con un cinema di "immagini e atmosfera" in cui "un personaggio roccioso, chiuso e astioso come Pietro ci sembrava ideale per Marco", spiega Monteleone.
Una figura che non è certo quella del padre modello: "Nella società liquida in cui viviamo la figura paterna è una specie di duplex di quella della madre; Pietro non è un esempio da imitare, né una figura educativa o affettuosa, anche se spesso capita di affezionarsi a modelli simili perché appaiono solidi e in un mondo liquido ci si attacca dove si trova".
Pietro è un cacciatore solitario, scorbutico e silenzioso con un passato e una vita alle spalle di cui lo spettatore conosce ben poco; la guerra lo ha cambiato e oggi è l'immagine di un mondo chiuso dove tutti sanno tutto degli altri e dove la reputazione di ciascuno conta come sulla rete, un microcosmo poco propenso ad accogliere degli sguardi esterni.
"Per gli altri è semplicemente un uomo cattivo e poco furbo, che si giocherà tutto in un'unica scommessa (la caccia all'orso) come un pazzo; - ci dice Paolini - se fosse solo questo assomiglierebbe ad uno di quegli scommettitori che passano intere mattinate davanti alle macchinette dei bar. Pietro è anche una persona che attribuisce alla propria vita un valore non elevatissimo, anche se non è un aspirante suicida. Forse se la sta giocando miseramente con un po' di dignità".