Non troverete in questa nostra recensione di La mia vita con John F. Donovan nulla di simile a quelle critiche feroci che il film ha ricevuto lo scorso settembre a Toronto, quando la nuova tanto attesa opera del giovane e talentuoso Xavier Dolan è stata letteralmente massacrata dalla critica anglosassone causando ritardi nella distribuzione della pellicola. Distruggere con tale veemenza un film come questo, vuol dire essere evidentemente prevenuti e odiare talmente tanto il regista (e quello che rappresenta) da non voler nemmeno tentare di guardare oltre i difetti. Non voler nemmeno cercare di capire quello che l'autore sta cercando di dire e soprattutto perché ha fatto determinate scelte: magari discutibili, magari evitabili, ma comunque coerenti con il messaggio che Dolan voleva far arrivare tanto al suo pubblico quanto ai suoi critici.
Di difetti evidenti La mia vita con John F. Donovan ne ha parecchi. Troppi da passarci sopra per alcuni, e questo è assolutamente comprensibile. Non è detto che un film, qualsiasi film, debba piacere a tutti e nemmeno è detto che un regista come Xavier Dolan debba piacere a tutti. Ma di sicuro non è accettabile, quantomeno da chi vive e scrive di cinema per lavoro, che un talento puro come quello del regista canadese possa essere trattato con tale superficialità o acredine. Perché è esattamente questo quello che è successo tra la critica anglosassone e Dolan da diversi anni a questa parte, un rapporto complicato che con questo film, il primo in lingua inglese e con star hollywoodiane, ha toccato davvero il fondo.
Perché poi il percorso artistico, più unico che raro, di questo fresco trentenne già al suo ottavo (!) film da regista sia motivo di critiche feroci, invidia e maldicenze invece che lodi e ammirazione è una cosa che probabilmente non capiremo mai. Ma a questo punto nemmeno ci interessa - d'altronde lo stesso Xavier Dolan è passato oltre e già il mese scorso a Cannes ci ha mostrato un nuovo film che sancisce un ritorno ad un cinema più semplice ed essenziale - perché finalmente il tanto discusso La mia vita con John F. Donovan è arrivato anche nelle sale italiane grazie a Lucky Red e possiamo godercelo e giudicarlo da soli. Possiamo provare a capire cosa effettivamente abbia funzionato poco nel passaggio ad una produzione più internazionale e di alto livello.
Xavier Dolan: come si riconosce un talento puro e perché dovremmo difenderlo
Una trama che parla del suo autore
La chiave di lettura dell'intero film risiede nella sua trama e delle sue assonanze con la vita dello stesso Xavier Dolan: Rupert Turner è un ragazzino di 11 anni, il cui sogno di diventare un attore è alimentato da un'amicizia epistolare e segreta con la star televisiva John F. Donovan. Un rapporto a distanza - raccontato anche attraverso una cornice in cui Rupert è adulto e parla ad una giornalista del libro che ha scritto su questa sua esperienza - che si protrae per anni, in modo assolutamente innocente, ma che rischia di rovinare carriere e vite a causa dell'impossibilità del mondo esterno di accettare una relazione del genere. E del capire il bisogno di entrambi di riuscire a comunicare senza dover mentire, senza dover indossare maschere, ma semplicemente facendo parlare i sentimenti. Attraverso questo bambino che sembra vivere per la sua star preferita e del suo conflittuale rapporto con la madre single ed ex attrice, Dolan ci parla della sua immensa passione per il cinema, della scoperta e accettazione della propria (omo)sessualità, ma anche della sua (amara) visione di Hollywood e dello star system, un sistema che non permette agli attori di essere loro stessi, ma li costringe ad un'immagine pubblica costruita a tavolino e pensata unicamente per vendere.
In molti già avranno letto della famosa lettera a DiCaprio che Xavier Dolan scrisse quando aveva solo 8 anni. Tutti probabilmente saranno a conoscenza dell'omosessualità dichiarata del regista. E chiunque conosca e ami la sua filmografia non avrà avuto troppi problemi a capire che il suo rapporto con la madre non deve essere dei più facili, d'altronde il suo primo film si intitolava J'ai tué ma mère, ovvero Ho ucciso mia madre. Basterebbero questi tre temi per capire quanto di lui ci sia in questo suo film e di come sia assolutamente impossibile scindere il valore artistico di La mia vita con John F. Donovan da quello puramente sentimentale e personale. È casomai significativo notare come, a differenza di registi ben più navigati, anche nella sua prima opera all'estero, anche in un film ricco di star e premi Oscar, a rimanere il cuore pulsante dell'opera sia sempre e comunque lui, un autore che all'epoca delle riprese aveva appena 27 anni.
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Non solo Kit Harington: le ragioni e le insidie di un cast internazionale
Ma quindi cosa c'è che non funziona questo film? Se pensate che il problema sia Kit Harington, cari fan delusi dal Trono di spade, beh vi sbagliate, perché l'attore londinese fa il suo dovere e riesce a rendere piuttosto bene il personaggio che Dolan gli ha cucito addosso. Semmai è proprio il resto del fantastico cast internazionale del film ad aver creato problemi al giovane regista, se consideriamo che, come ben noto, Jessica Chastain è stata completamente tagliata dal montaggio finale o che un fenomeno come Natalie Portman nella prima metà del film è legnosa come non ci era mai capitato di vedere. Sono cose che succedono quando si ha che fare per la prima volta con star di questa caratura e per di più di lingua straniera, Dolan non è il primo a cui è capitato e di sicuro non sarà l'ultimo.
Sono cose che capitano soprattutto quando si ha a che fare con un progetto molto ambizioso quale è La mia vita con John F. Donovan: proprio la struttura narrativa a più livelli appesantisce enormemente il film e non permette allo spettatore di empatizzare a dovere con i protagonisti se non dopo molto, troppo tempo. Ma appunto nella seconda metà il film migliora e con esso anche tutte le performance attoriali, Portman compresa. Anzi, nel finale e proprio insieme al piccolo Jacob Tremblay (l'attore rivelazione di Room) ci regala alcuni dei moemnti più intensi del film. E lo stesso vale per la fantastica Susan Sarandon che interpreta la madre di John F. Donovan o per la solita immensa attrice che è Kathy Bates, protagonista della scena più rivelatrice del film ma forse anche una delle più discusse e discutibili.
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Perché se c'è una cosa che proprio non deve essere andata giù alla critica USA è quell'idealismo che il film trasuda in certe scene e che ci fa credere - come nel caso della Bates/agente altruista e dal cuore d'oro o del "magico" e misterioso personaggio interpretato da Michael Gambon che sembra quasi provenire da Harry Potter (non a caso una delle grandi passioni di gioventù di Dolan) - che l'american dream esiste davvero, che Hollywood in fondo non è poi così cattiva e che in fondo c'è posto nello star system anche per un attore omosessuale che non vuole nascondersi e nascondere al suo pubblico quello che è veramente. Tutto troppo ingenuo vero? Già, quasi fosse tutto visto e raccontato attraverso gli occhi di un bambino... cose che in effetti il film è, visto che il narratore e il protagonista vero e proprio è l'undicenne Rupert Turner. Senza contare che anche Xavier Dolan, seppure regista a tratti sublime e con grande personalità, è in fondo ancora un ragazzino. E se anche gli adulti, anche i grandi maestri del cinema, possono sbagliare, perché non dovrebbe farlo lui? L'errore vero è semmai quello degli altri, nel non riconoscere che, anche in un film imperfetto e fin troppo ambizioso come questo, c'è tanta passione, tanto coraggio e comunque tanto cinema.
Conclusioni
Come avrete capito dalla nostra recensione di La mia vita con John F. Donovan, a noi il film "maledetto" di Xavier Dolan è fondamentalmente piaciuto, con tutti i suoi (evidenti) difetti. Perché dietro ad una sceneggiatura dalla struttura inutilmente complessa, dietro a scene melodrammatiche e a tratti perfino prevedibili, batte il cuore appassionato di un regista dal talento straripante. Un artista che, come spesso accade, è arrivato al successo troppo presto e forse per certe cose non ha avuto il tempo di crescere, ma Xavier Dolan, proprio come il suo protagonista, lotta per essere sempre se stesso anche in un mondo dove spesso non ti è permesso e non ti viene perdonato.
Perché ci piace
- Dolan riesce a tramettere in modo lucido il messaggio dietro al suo film, e si mette a nudo come forse mai prima d'ora grazie ad una sceneggiatura che parla chiaramente di lui e del suo rapporto con la settima arte.
- È incredibile come un regista così giovane riesca a trasmettere un'idea così personale di cinema, anche in un film dalla lavorazione così complessa e complicata.
- Non mancano i soliti guizzi di regia, le scene emozionanti e un efficace utilizzo della musica...
Cosa non va
- ... anche se rispetto al passato questi elementi spesso arrivano con un po' meno forza.
- La struttura del film, su più linee narrative, appesantisce e poco aggiunge a quello che voleva dire l'autore.
- La qualità della recitazione e dei dialoghi non è uniforme, ma fatta di alti e bassi.