La mala-educazione
Un romanzo di Frank Wedekind che a suo tempo destò un discreto scandalo, e una sceneggiatura, quella del fu Alberto Lattuada. E' su questi presupposti d'ispirazione che prende vita l'ultima pellicola dell'inglese John Irvin, presentata al Festival di Venezia 2005 fuori concorso ed incentrata sull'iniziazione alla vita (e a tutte le sue più infami sfumature) di candide educande finite in un collegio rinomato della Turingia.
In effetti la prima parte di The fine art of Love- Mine Ha Ha (che in Italia uscirà come L'educazione fisica delle fanciulle) illude lo spettatore che si tratti di una banale storiella a tratti misteriosa a tratti buonista, riguardante, appunto, giovani donzelle costrette a vivere tutte insieme appassionatamente (e mai un avverbio fu tanto appropriato!) sotto le rigide regole della loro (apparentemente) integerrima direttrice.
Tutto sembra scorrere nel modo più scontato possibile, tanto che a volte tornano nostalgiche alla mente sequenze di film già visti, come il lontano Annie di Huston, insuperabile per la resa della tragicomica realtà solitaria di una povera orfanella sorridente. Eppure - c'è un enorme 'eppure' che si pianta insormontabile nel bel mezzo della pellicola di Irvin, per altro coproduzione italo-ceca-inglese: un 'eppure' che la ribalta, deformandone i contorni fino all'eccesso. Tutti i sentimenti, le passioni, gli stati d'animo vengono dilatati all'improvviso come ad abbracciare lo schermo intero, e si tingono di colori violenti, sbalorditivi, strazianti addirittura.
Il melò si trasforma in horror raccapricciante nel giro di qualche frame, i volti candidi delle protagoniste si corrucciano in smorfie d'appagamento (omo)sessuale così come in gemiti di morte, mentre latrati di cani assatanati si rivelano ben più potenti di infantili competizioni per ottenere il fatidico ruolo di "prima ballerina", quel ruolo così importante per ogni ragazza che si rispetti - essere bella e brava a ballare: questi i requisiti essenziali per una vera donna. Questi gli insegnamenti impartiti a qualunque costo e senza alcuna remora morale da gelidi occhi capaci di osservare e persino compiere le azioni più crudeli, tutte, pur di nascondere celare camuffare i tremendi scheletri nell'armadio e gli altrettanto orripilanti progetti per il futuro ("Ma che magnifici esemplari biologici!").
Vittime ed assassine finiscono allora per confondersi in una spirale infinita di sangue, di ipocrisia, di delirio allo stato puro, per un thriller tutto al femminile in cui spiccano i volti italiani di attrici di fiction nostrane come Silvia De Santis, Galatea Ranzi ed una brava Eva Grimaldi (degne, d'altronde, della produttrice Ida di Benedetto, pioniera di soap come Un posto al sole).
Severità perversa, nostalgia morbosa verso un passato che non può più ritornare, attaccamento maniacale ad un presente fatto di riverenze e sorrisini, abili maschere di oscure costrizioni e torture e omicidi a catena: ecco quanto Jacqueline Bisset è stata capace di esprimere, con una professionalità ed una padronanza espressiva a dir poco formidabili. Non è esagerazione affermare che gran parte dello svolgimento della pellicola, se non tutto, risulta accattivante proprio grazie alla sua stessa interpretazione, così esageratamente pertinente al personaggio da apparire reale, quasi storicamente esistita, una sorta d'incarnazione simbolica su cui confluire tutto il rancore di inenarrabili angustie registrate in quegli anni così perbenisticamente preoccupanti. Anni di sospetti, d'indagini messe a tacere, di maschilismo sfrenato, di aristocrazia avida e lussuriosa: questo lo sfondo su cui si muove, oltre all'unico personaggio positivo (e maschile), l'italiano Enrico Lo Verso nei panni di un giovane commissario di polizia, tutt'una schiera di fanciulle (Hannah Taylor-Gordon, Mary Nighy, Anna Maguire, Emily Pimm, Anya Lahiri) che per la loro bravura strappano letteralmente il palcoscenico ai loro colleghi più anziani, mostrandosi attrici decisamente migliori delle varie adolescenti viste e riviste in film stile Mona Lisa Smile.
Va detto, tuttavia, che non si tratta di una visione impeccabile: pur presentando vari spunti di rara genialità (i titoli di testa sono, a tal proposito, un vero gioiello), la pellicola resta un tentativo ammirevole ma non pienamente riuscito. A scene di un'efficacia suggestiva impressionante (una su tutte: le maschere anonime della servitù, perché "Le serve non hanno un'anima") si affiancano accenni non svolti, fili di trama lasciati in sospeso, punti importanti non approfonditi, a cominciare dal titolo che si rivela completamente estraneo alla narrazione - escluse vaghe ed arbitrarie associazioni d'idee del tipo acqua-purezza, cascata-felicità e simili, che mal si addicono alla violenza travolgente di una trama che si conferma cattiva e moralmente irrecuperabile fino all'ultimissimo minuto. Nessuna redenzione, niente salvezza, lieto fine clamorosamente assente. Solo uno struggente grido di disperazione soffocato da un assordante inno ipocrita alla corruzione, una corruzione che a poco a poco risucchia tutto, mettendo a tacere legittimi impulsi di ribellione, d'amore (tematica decisamente abusata nella pellicola), di genuinità.
In altre parole: quando l'educazione uccide l'innocenza.