Recensione Il posto delle fragole (1957)

Capolavoro indiscusso del cinema di tutti i tempi, è un film che costringe alla riflessione e alla totale rivalutazione delle certezze più intime; un film che mette in crisi ogni preconcetto, ogni acritica visione della vita.

La lirica parabola bergmaniana sulla nascita di un sorriso

Il posto delle fragole è, per tutti i cinefili, uno tra i capolavori indiscussi della storia del cinema. Alcune fonti ritengono si tratti dell'unico film, insieme a Quarto potere, ad esser presente in tutte le classifiche di merito sul cinema. Alla sua uscita, fu salutato sia dalla critica che dal pubblico molto favorevolmente tanto da esser premiato con numerosi riconoscimenti tra cui l'Orso d'oro a Berlino (1958), il Premio della critica cinematografica al Festival di Venezia (1958), il Golden Globe come miglior film straniero (1960), e miglior film straniero agli Oscar (1959).
La sua fortuna si deve, non tanto all'immensa portata filosofica, quanto invece al suo lacerante lirismo. Certo non si tratta di un film di fronte al quale si può restare indifferenti soprattutto visto il carattere purificatorio che lo pervade. Non si può non camminare con il protagonista nel suo viaggio salvifico, sebbene si abbiano più di sessant'anni in meno di lui.

Il posto delle fragole non è solo un'estasi di pura emozione sensuale, un groviglio illogico di epidermici brividi; è un film che costringe alla riflessione e alla totale rivalutazione delle certezze più intime; un film che mette in crisi ogni preconcetto, ogni acritica visione della vita.
E la riflessione si genera a partire da un organizzato dedalo di realtà e sogno al quale né il protagonista né lo spettatore può sfuggire. Ci si trova coinvolti in un percorso, reale quanto fantastico, che non si vorrebbe mai veder finito. Forse tutto ciò è dovuto alla perfezione della sceneggiatura, curata nei più impercettibili dettagli; una sceneggiatura che ricostruisce, attraverso il ricorso a flashback, sogni e vita vissuta, il carattere di Isak e il suo cambiamento senza per questo tralasciare gli altri personaggi. O forse la forza del film risiede nel fascino con cui questi ultimi sono costruiti, nella loro labirintica psicologia. Si viene catapultati nelle loro angosce più oppressive, nelle loro manie nascoste e mai svelate. Soprattutto si viaggia nella mente di Isak, nel suo inconscio tormentato e autolesionista. Grandi elogi meritano, in questo senso, le splendide interpretazione degli attori, quella di Victor Sjöström su tutte. Forse aiutato dalla sua particolare fisionomia, dalle sue pacate espressioni, dai suoi occhi tristi e umidi, il vecchio regista svedese, maestro di Bergman, offre un intenso ritratto del Professor Isak Borg. Ma altrettanto intense sono le interpretazioni degli altri attori del film: Ingrid Thulin che, nella sua algida e raffinata bellezza, incanta gli occhi e muove il cuore; Bibi Andersson, tenera e sincera nelle parti di Sara; Jullan Kindahl, macchietta scorbutica e ironica di una governante e Naima Wifstrand, agghiacciante e 'terribile' madre.

In questo quadro così ben delineato, il regista non necessita di invadere il campo dei personaggi; li lascia liberi di esprimersi, di descriversi da soli, senza sconsiderate intrusioni. Da qui deriva l'impressione di un film il cui tratto dominante è senza ombra di dubbio la sobrietà, la 'borghese' eleganza, l'atteggiamento esistenziale. E la scelta del bianco e nero, con una fotografia tendente ad accentuare i chiaroscuri, non fa che sottolineare questa raffinatezza della forma che, però, si riverbera anche nei contenuti, soprattutto nel tema della caducità della vita umana. In quest'ottica, forse anche il titolo potrebbe riferirsi a questa fugacità; il termine posto, infatti, richiama qualcosa di stabile, di immobile (la morte) mentre le fragole evocano un'esistenza temporanea e insicura e una fragilità tipiche della vita umana.
Ma ciò che colpisce maggiormente di questo film è la sua struttura simmetrica che lo fa sembrare una sorta di parabola catartica che porta il protagonista dal rifiuto più totale della vita al più pieno amore per ogni sfumatura che essa offre. Questa struttura simmetrica che linearmente si snoda dall'alba al tramonto, o più correttamente dal tramonto all'alba, vista la rinascita di Isak, cela però una complessità notevole. Si tratta di un'indistricabile trama di piani narrativi che proiettano lo spettatore nel passato lontano e non privo di angoscia del protagonista, nei suoi ricordi che, seppur atroci, sono i più difficili da dimenticare e nelle sue fantasie represse e mai fronteggiate.

È la storia di come tutto torna nella vita, di come ciò che non hai mai avuto il coraggio di affrontare ti perseguiti anche nella tua più totale indifferenza. È la storia di un viaggio, un viaggio che ne nasconde un altro e poi un altro ancora; è la storia di una catena inarrestabile di pensieri che da soli prendono vita e ti modellano a loro piacimento. È la storia della vita, quella vita che ieri sembrava finita e che oggi ricomincia a fluire, anch'essa inarrestabile. È la storia di un sorriso, quel sorriso che Isak non conosceva più.