Recensione Il silenzio dell'allodola (2005)

Il film sgancia piccole bombe che colpiscono prima al cuore che allo stomaco, rendendo bene tutte le violenze subite dal personaggio principale senza però indugiare sulla voyerismo gratuito e facendo crescere man mano l'indignazione dello spettatore.

La lieve carezza del martirio

Bobby Sands, irlandese cattolico, venne arrestato nel 1977 con l'accusa di aver partecipato ad una sparatoria, costretto a confessare con la minaccia di una pistola puntata alla fronte. Morì in carcere il 5 maggio 1981, dopo sessantasei giorni di sciopero della fame, intrapreso per protestare contro la negazione dello status di prigioniero politico per i militanti dell'Ira.
Questa è la storia di un uomo che ha combattuto fino alla morte per la causa in cui credeva.

Il silenzio dell'allodola parte da qui, dall'arresto di Bobby Sands e lo segue all'interno delle pareti della prigione, attraverso le umiliazioni fisiche e morali, le violenze e i soprusi che lui e i suoi compagni furono costretti a subire in ossequio alla "linea dura" intrapresa dal governo inglese.
Ma subito dopo si sgancia dalla Storia per intraprendere un discorso più generale sull'oppressione che l'uomo compie sull'uomo in ragione della cosiddetta difesa della civiltà.

Il regista e sceneggiatore David Ballerini compie attraverso il personaggio di Bobby (magnificamente interpretato da Ivan Franek, già protagonista di Brucio nel vento di Soldini) una riflessione più ampia su tutte quelle occasioni in cui in nome di un'idea si è arrivati ad accanirsi sul prossimo.

Il personaggio di Bobby è quindi isolato, rinchiuso in un utero chiuso, nel quale i compagni si sentono solamente come voci fantasma, dove quanto avviene fuori viene eliminato, limitato ad una rapida carrellata di titoli di giornali.
Il protagonista non è più un personaggio storico in senso stretto e la pellicola evita così il pericolo di divenire didascalica e documentaristica, per avventurarsi in un discorso più interessante sul significato del martirio e della lotta contro un sistema più forte di noi.

Attraverso una regia sapiente e una recitazione ottima di tutti gli elementi (da citare alcuni volti noti del cinema italiano, Marco Baliani il capo dei secondini e Flavio Bucci il direttore del carcere), il film sgancia piccole bombe che colpiscono prima al cuore che allo stomaco, rendendo bene tutte le violenze subite dal personaggio principale senza però indugiare sulla voyerismo gratuito e facendo crescere man mano l'indignazione dello spettatore.
E se a volte si scorgono alcune ingenuità di sceneggiatura, pure si dimenticano presto, travolti dalla poesia e dall'evocazione delle scene oniriche, in cui Bobby seppure in catene continua ad essere libero.
Un film da vedere per capire e per tenere d'occhio un interessantissimo giovane autore.