A Valerio Jalongo i problemi distributivi del suo Sulla mia pelle non devono proprio essere andati giù, e si sente dall'amarezza con cui affronta l'attuale situazione produttiva italiana, dal suo voler mettere in guardia gli studenti di cinema, che ha incontrato nell'ambito del Napoli FilmFestival, sulle difficoltà che questo vanno affrontate per realizzare film nel nostro paese. "Perchè", dice Jalongo, "sono stato studente di cinema anche io, e mi sarebbe piaciuto che qualcuno mi avesse spiegato la situazione."
Situazione che non è delle più felici, secondo non solo il regista, ma anche il produttore del film, che in conferenza stampa ha tenuto a sottolineare che film come questo e come il suo precedente Certi bambini in Italia non se ne potranno più fare a causa delle nuova legge sulle sovvenzioni statali.
E l'argomento continuerà a ricorrere in tutto l'incontro: anche quando si accenna al successivo incontro degli studenti con Theo Angelopoulos, che porta Jalongo a invitare i ragazzi a chiedere all'autore greco cosa pensa della situazione cinematografica italiana, a chiedergli se non trova che questa rovina sia legata alla politica italiana; anche quando, parlando del suo volontariato nel carcere di Rebibbia per un corso di scrittura creativa, spiega come abbia dovuto rinunciare alla sua idea di girare gli interni carcerari del film in un braccio in disuso proprio di Rebibbia a causa dell'intervento del Ministro Castelli.
La stessa nota polemica riecheggia nelle parole di Donatella Finocchiaro, Bianca nel film, che spiega: "Sentivo molto vicino questo personaggio. Sono figlia di un imprenditore siciliano e so che significa barcamenarsi nel Mezzogiorno, con uno Stato che non aiuta".
"Sulla mia pelle", spiega, "è un film sulla libertà", concetto che trova importante in un paese in cui questa risulta sempre più ridotta e ridimensionata. Tutti i personaggi del film sono in qualche modo prigionieri: del carcere, del lavoro, della tecnologia, di un'idea. Per la loro condizione di semilibertà, il personaggio di Ivan Franek è in grado di rivalutare l'importanza di piccole cose che diamo per scontate. In questo senso, la semilibertà di Andrea rappresenta metaforicamente una condizione in cui vivono moltissime persone.
Nel percorso precedente alla vera e proprio produzione del film, l'idea originale si è trasformata: "la prima volta che Valerio mi ha raccontato la storia," spiega il produttore Rosario Rinaldo, "il film era una commedia. Ma nel corso del viaggio per scegliere i luoghi, la storia ha preso un'altra piega ed è diventata un melodramma". Un film, quindi, nato dal territorio, dal dialogo, dal confronto, a differenza di tante fiction con tematiche simili che nascono a tavolino, a Roma, lontane dalla realtà che vogliono raccontare. Jalongo prende le distanze dalle produzioni televisive anche nelle tecniche usate: gira in cinemascope, con una fotografia, un taglio e tempi molto cinematografici, proprio per sottolineare questa sua presa di posizione, dovuta alla conoscenza diretta del mondo televisivo, per il quale ha lavorato.
Ma non è nemmeno un film d'autore, secondo Rinaldo, non è il film di un autore che "si è messo davanti allo specchio e ha parlato di sè stesso".
Quanto al finale del film, Jalongo lo definisce ottimista, ma si rende conto delle diverse possibili interpretazioni a cui si presta, dall'amaro al crudo, al beffardo.