Recensione 1997: Fuga da New York (1981)

Cult movie degli anni '80, pellicola che creò un'icona, opera di punta di una tendenza alla contaminazione dei generi che ebbe in Carpenter uno dei suoi maggiori esponenti: "1997: Fuga da New York" è tutto questo e molto più.

La Grande Mela marcia

Cult movie degli anni '80, pellicola che creò un'icona, opera di punta di una tendenza alla contaminazione dei generi che ebbe in Carpenter uno dei suoi maggiori esponenti: 1997: Fuga da New York è tutto questo e molto più. Proprio così: questo film è in assoluto uno dei più politici del suo autore, quello in cui la sua visione disillusa e nichilista dell'umanità viene per la prima volta resa esplicita e tramutata in immagini. Quello che Carpenter ci mostra è un affresco a tinte cupe del futuro, una tetra promessa, una minaccia mai smentita: con un budget irrisorio il regista mette in scena una Grande Mela putrescente, una visione apocalittica che colpisce da subito per la sua crudezza e il suo realismo. L'isola di Manhattan, carcere di massima sicurezza e luogo di anarchia e violenza, è devastata dai suoi stessi abitanti: quei reietti che la società ha abbandonato a loro stessi e che hanno eletto questo luogo a loro patria, e vi hanno applicato la loro legge. Il cuore dell'impero è diventato la sua enorme discarica, pullulante di esseri umani ridotti a bestie, di individui che, spogliati dai condizionamenti sociali, vivono secondo la legge della giungla: chi è debole soccombe. E' significativa la scena ambientata in un teatro, con Ernest Borgnine che muove la testa al ritmo di un'allegro motivetto avente per tema proprio la città di New York, con le candele al posto della luce elettrica e le strade, fuori, invase dai fuochi e preda di bande criminali: la malinconia per un sogno infranto, o meglio sventrato dal suo interno, per una promessa non mantenuta che annunciava benessere e ha generato invece sangue e sofferenza.

Come in Distretto 13: le brigate della morte, Carpenter non da un volto ai letali individui che fuoriescono dall'oscurità: come i teppisti che assaltano il distretto di polizia nel suo secondo film, i "pazzi" di questa pellicola sono "cose", mortali presenze che fuoriescono dal sottosuolo e attaccano il protagonista come zombie, per poi tornare nel loro buio regno sotterraneo. E' evidente la parentela, oltre che con gli assassini di Distretto 13, anche con i letali fantasmi di Fog: anch'essi erano presenze senza volto, anch'essi erano stati privati della propria umanità (o meglio: della propria vita) da altri esseri umani.

In questo universo devastato, un personaggio come Jena Plissken (Snake nella versione originale), antieroe carpenteriano per eccellenza, sembra avere l'unica ricetta per sopravvivere: il nichilismo totale, l'anarchia elevata a regola di vita, il rifiuto di qualsiasi istituzione, l'indifferenza per le sorti di un'umanità che, forse, non merita di sopravvivere. Con un look da fumetto (capelli lunghi, benda, maglietta nera e calzoni mimetici) e poche, fulminanti battute, Carpenter ha creato una vera e propria icona, che ebbe una grossa influenza sull'immaginario cinematografico degli anni '80. Kurt Russell, già con il regista ai tempi di Elvis il re del rock, risulta perfetto per il ruolo: la sua glacialità, il suo modo di pronunciare le poche battute del personaggio, la sua straordinaria presenza fisica, fanno in modo che Plissken gli "entri" dentro in modo totale: una prova esemplare per quello che è stato, forse, il ruolo più importante della sua carriera.
Accanto a Russell, Carpenter volle un cast di notevole livello: da sottolineare il coinvolgimento di "vecchie glorie" come il già citato Ernest Borgnine, malinconico tassista cittadino, un perfetto Lee Van Cleef nel ruolo del poliziotto Hauk, e l'ottimo Harry Dean Stanton, che impersona un ex compagno d'armi del protagonista. Da segnalare anche la convincente prova di Donald Pleasence nel ruolo di un presidente degli Stati Uniti pavido e sgradevole.
Una buona parte dell'impatto del film è dovuta anche alla livida fotografia, che immerge l'apocalittico scenario di Manhattan in una sorta di notte perenne, e alla colonna sonora, ancora una volta firmata dallo stesso Carpenter: perfettamente in linea con il tono cupo e apocalittico delle immagini, è sicuramente una delle composizioni più riuscite del regista.
Una pellicola, quindi, fondamentale, sia nell'ambito della filmografia del suo regista, sia in quello, più generale, del cinema degli anni '80: un urlo cinematografico in controtendenza con il rampantismo galoppante di quel periodo, uno squarcio nel velo di ottimismo che ricopriva la società (e il cinema) americani, per gettare una luce cupa su paure e angosce assolutamente contemporanee; attualissime ancora oggi, a ben vedere, a più di vent'anni dalla sua uscita cinematografica.

Movieplayer.it

5.0/5