Ellen Kuras è uno dei pochissimi direttori della fotografia di sesso femminile di successo, una delle poche non solo negli Stati Uniti ma addirittura in tutto il mondo e questo, negli ultimissimi anni specialmente, la sta rendendo quasi un'icona e una speranza per le sue colleghe a cui non viene data una possibilità.
Classe 1959, la Kuras è nata e cresciuta negli Stati Uniti ed ha iniziato a lavorare come cinematographer all'inizio degli anni '90: il suo primissimo lavoro è stato un documentario del 1990, inedito in Italia, Samsara: Death and Rebirth in Cambodia. Come molte sue colleghe ha trovato spazio soprattutto nel circuito del cinema indipendente, stringendo un'affiatata relazione lavorativa con il regista Spike Lee per il quale ha curato la fotografia di molti dei suoi film e di un documentario inedito in Italia, 4 Little Girl del 1997.
Caratteristica della sua filmografia di Ellen Kuras è la partecipazione a progetti indipendenti. Questa lontananza dai circuiti produttivi più altisonanti, può essere letta non solo come una scelta, ma anche come una difficoltà dell'industria cinematografica a rischiare e ad investire sul suo nome. Pellicole indipendenti, con un'idea rigorosa alle spalle, ma anche molto film medi, valorizzati dal suo notevole talento, costituiscono quindi il suo curriculum. Tra le ultime fatiche di Ellen Kuras troviamo però un film dal valore cristallino: Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind) di Michel Gondry. In un'intervista rilasciata durante la lavorazione del film, Ellen Kuras sottolinea come, in ogni film, le piaccia sperimentare qualcosa di nuovo e differente per la fotografia. Nel film di Michel Gondry la cinematographer ha, dunque, provato a realizzare molti effetti in-camera, e ciò, come lei stessa dichiara, ha molto stimolato la sua immaginazione perché si sentiva riportare indietro nel tempo, al suo interesse per i film sperimentali. L'intera idea su cui si basa la fotografia del film, è quella di giocare con spazio, tempo ed immagini e usare la doppia esposizione, la sfocatura ed espedienti simili.
I motivi delle scelte fotografiche del film partono da molto lontano, dal titolo originale: Eternal Sunshine of the Spotless Mind, molto più dotto ed intelligente del commerciale titolo italiano Se mi lasci ti cancello, è anche e prima di tutto un verso di Alexander Pope. Già il titolo, dunque, pone un nesso chiaro tra il film stesso e la citazione, elemento che, attraverso uno dei personaggi, verrà spesso posto in gioco. E la citazione richiama la parola che, come è stato osservato da più di qualcuno, è un elemento che si staglia nel delirio e nel vortice visivo generato dai ricordi nella mente del protagonista Joel (Jim Carrey). È la parola l'elemento a cui è affidata tutta la speranza del film.
Il testo di Pope citato dal titolo e dal personaggio di Kirsten Dunst, affida ad una lettera d'amore il compito di preservare il racconto della storia romantica tra Eloisa ed il monaco Abelardo, facendo in modo che sia la parola scritta a racchiudere, conservare e tramandare per sempre il senso di una grande storia d'amore, e questa sembra essere la stessa scelta del film di Gondry, che affida alla parola Montauk, ed alle parole in generale, l'esito della storia d'amore, come sembrano confermare tanti degli indizi e dei dettagli sciolti e diluiti tra le immagini di Eternal Sunshine of the Spotless Mind.
La parola sembra essere, dunque, l'unica chiave di salvezza in un mondo in cui i ricordi si confondono e poi scompaiono mentre sfumano le immagini stesse che li raccontano. Infatti, nel baratro di memoria e smemorizzazione in cui sprofondano Joel e, con lui, lo spettatore non è possibile uscire senza affidarsi al filo rosso teso dalle parole: non è un caso che il film inizi con la voce off di Joel ed abbia, poi, il suo climax nell'ascolto delle audiocassette, che rimbombano, come fossero la voce stessa dei ricordi cancellati, sugli avvenimenti del presente e sui discorsi che Clem e Joel vorrebbero affrontare, per spiegarsi ed esser felici, se non fossero attratti da quelle parole tuonanti dall'alto come un verdetto.
Se mi lasci ti cancello parla, ad una lettura più profonda, anche del cinema: come se fossero mille film sovrapposti l'uno sull'altro nella memoria del pubblico, le immagini del film di Gondry passano, si confondono e si fondono, mille scansioni di 24 fot/s - di vita e di cinema - si sovrappongono e l'unico modo per andare avanti è tornare indietro, regredire, come il protagonista del film, ritrovare la capacità di osservare le imperfezioni, le sfocature di quanto si vede per concentrarci su altri elementi, smettendo, dunque, di concepire il cinema come una finestra sul mondo per ritrovare il valore dell'opacità, smettendo di usare gli occhi per illudersi di penetrare ogni dettaglio di una vicenda per ricorrere, invece, al filtro della parola. Tutto questo la fotografia del film lo riassume in un unico concetto fotografico: la sfocatura. Come, infatti, suggerisce la storia del film, la parola, rispetto alle immagini, sembra essere meno ingannatrice e traditrice, meno effimera dei ricordi, che sbiadiscono, si sbavano e scolorano. In un perfetto incastro tra forma e contenuto, dunque, la Kuras mette in fotografia il concetto chiave del film con immagini a volte completamente sfocate, rese come fossero solo delle ombre, delle macchie di colore.
I ricordi, però, appunto, sempre più sfocati, come spesso appaiono nella realtà delle menti umane, non sbiadiscono mai, nel film, sino al punto di svanire del tutto in un bianco assoluto, come ci si potrebbe aspettare. La Kuras, dunque, non scegliendo il bianco totale ma lo sfocato, sembra suggerire che di queste immagini mentali, in Joel, rimanga sempre qualcosa e questo concetto, senza la scelta fotografica di Ellen Kuras non sarebbe chiaro, non sarebbe indagabile, come non sarebbe chiara l'importanza ed il senso altro che ricopre la citazione, utilizzata come evocazione. E l'evocazione sembra provenire, nel film, proprio da quelle immagini sbiaditesi ma non scomparse del tutto. Il ricordo, per come ce lo illustra la Kuras, forse si attenua e si nasconde nei meandri più nascosti della mente del protagonista, ma non svanisce del tutto: degli elementi resistono, la sfocatura non è assenza ma incertezza, confusione, presentimento, come ombre e foto sbiadite di un passato immemorabile ma comunque vissuto, e si sedimenta, posandosi nel fondo dei protagonisti, tanto che, per entrambi, è sufficiente la citazione di determinate parole (per Clem quelle che Patrick ruba alla storia d'amore tra lei e Joel; per Joel l'annuncio, all'altoparlante della stazione, della partenza del treno per Montauk) per entrare in crisi e compiere atti apparentemente incomprensibili ma che sono, in realtà, dettati da quei sedimenti interiori. Se, infatti, i ricordi del passato, in Joel e Clam, si fossero del tutto cancellati, svanendo in un bianco assoluto, in uno spazio vuoto, non basterebbero delle semplici parole per evocare e suggerire una sensazione a cui si deve rispondere con degli atti ben precisi.
La parola, dunque, sola, senza il supporto della fotografia, non sarebbe identificabile come l'elemento chiave del film, non avrebbe basi su cui reggersi e volerebbe come spesso alle parole accade: se permane è per quei germi di sfocature che la fotografia lascia immaginare si sedimentino nei protagonisti. La fotografia del film, dunque, smacchia la mente di Joel, ma non la candeggia, non può riportarla all'immacolata condizione che suggerisce il titolo: un velo, un colore diluito, un'ombra, un vago sentore sfocato, permane e continua ad influire sulla vita dei protagonisti.
In un mondo in cui le pratiche del film per dimenticare sembrano essere sempre meno lontane, la fotografia di Ellen Kuras suggerisce e ricorda, evoca, nello spettatore stesso - e non più solo nei protagonisti del film - che il passato non si cancella mai, qualsiasi cosa accada dopo averlo vissuto e che, chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo.