Recensione La frontiera dell'alba (2008)

Se non stupisce infatti il piglio narrativo da Nouvelle Vague e il formalismo ricercato del film, a irritare fortemente è la banalità mascherata da profondità in cui il film annega irreversibilmente.

La forma inconsistente dell'amore

In una Francia a-temporale, dove non ci sono i segni della contemporaneità, François, un giovane fotografo bello e imbronciato, raggiunge una celebre attrice, Carole, nella sua abitazione per un servizio fotografico. Alle prime pose Carole mostra insofferenza e decide di rimandare al giorno successivo, durante il quale i due si scoprono profondamente attratti. Carole è una donna fragile, complessa, tormentata e con il vizio della bottiglia, ma François le dichiara subito il suo amore incrollabile. Carole gli chiede allora se l'amerebbe anche se fosse meno attraente e totalmente pazza, lasciando François un pò sgomento. Ma l'amore è più forte di tutto, almeno fino all'arrivo del marito di Carole da New York che costringe il fotografo a un'umiliante fuga in mutande che lo manda su tutte le furie. Distrutta dall'improvviso abbandono di François, Carole gli scrive una lettera, poi impazzisce e finisce in un ospedale psichiatrico dove pensano bene di farle delle sedute di elettroschock. Uscita dal calvario ritrova François, che le confessa di aver iniziato a vedersi con un'altra, Eve. Carole ricade in crisi, si attacca alla bottiglia e si suicida. Intanto François approfondisce il suo rapporto con Eve e le confessa il suo amore. Lei corrisponde anche se crede di amarlo un pò di più. Decide allora di volere un figlio da lui; François non è d'accordo, lei piange, allora lui si convince. Eve parte per New York, mentre François incontra un uomo che gli confessa di essere antisemita. Lui gli risponde di essere ebreo e poi parla col gatto. Al suo ritorno Eve è malinconica; stimolata da François gli confessa di essersi innamorata di un uomo a New York, ma di non averci fatto l'amore e di volere ancora un figlio da lui. François supera la cosa anche grazie all'intervento di un conoscente prima e del suo migliore amico poi, che gli illustrano la magia dell'essere padre e lo raccomandano di non temere un felicità convenzionale. Il subconscio di François è però dominato dai sensi di colpa e comincia a vedere in ogni specchio, tra una dissolvenza a nero e l'altra, Carole intenta a convincerlo a celebrare il loro amor fou e a raggiungerlo. E il subconscio ha il suo innegabile peso.

Sembra una soap argentina della peggiore specie e invece è proprio il nuovo film di Philippe Garrel dall'emblematico titolo La frontiera dell'alba. Una dichiarazione di intenti di rara pretenziosità, che comunque qualcuno, qui a Cannes, pare avere anche gradito. Rimane ugualmente un mistero come si possa ancora indugiare su una storia del genere, specie per un uomo con la formazione e la filmografia di Garrel. Che non si capisce se creda davvero in quello che racconta o se sia pronto a godersi lo spettacolo isterico delle reazioni al suo film. E' altresì ovvio che un certo tipo di intellettualismo vacuo e stantio è ancora oggi parte integrante di un certo cinema francese che non smette di trovare acerrimi sostenitori. Ma La frontiera del'alba, anche in questo senso, segna un passaggio ulteriore, per la grave deriva dei suoi contenuti. Se non stupisce infatti il piglio narrativo da Nouvelle Vague e il formalismo ricercato del film (costruito su piani fissi di grande equilibrio visivo e su un bellissimo bianco e nero), a irritare fortemente è la banalità mascherata da profondità in cui il film annega irreversibilmente.