Recensione I gatti persiani (2009)

I gatti persiani è un viaggio avventuroso in un mondo insospettabile, quello dei musicisti underground di Teheran, per i quali la musica è uno strumento di lotta e di resistenza all'insensatezza del regime, ma anche un modo per esprimere tutto l'amore che li lega al loro vitale e martoriato Paese.

La bellezza invisibile

La forza del cinema di Bahman Ghobadi è innanzi tutto quella di mostrare la sua terra, l'Iran, come non siamo abituati a vederla, complici la noncuranza o, peggio, la parzialità dei mezzi di informazione. L'Iran di Ghobadi è un luogo in cui il capitalismo e la globalizzazione non sono sinonimi di libertà, e non è fatto di un'unica, coerente massa di fondamentalisti, dediti a confezionare bombe e a tramare contro l'occidente. I giovani iraniani hanno interessi e sogni in nulla dissimili da quelli nostrani, come dimostra la storia di Ashkan e Negar, musicisti indie rock che sperano di espatriare per presenziare ai festival europei, ma anche quella dello stesso regista, che nell'apertura della pellicola troviamo in sala d'incisione, a cercare di consolarsi attraverso la musica dell'ennesimo veto che la censura ha posto sui suoi progetti cinematografici. Non per nulla I gatti persiani è nato in completa clandestinità: impossibilitato a girare in 35mm perché tutta l'attrezzatura è proprietà dello stato, Ghobadi si è armato di camera digitale e ha seguito per due settimane i suoi giovani amici, è incorso per due volte nell'arresto, ed è stato rimesso in libertà in cambio dei dvd (illegali) dei suoi precedenti film.

Molta della notorietà della pellicola è dovuta al contributo di Roxana Saberi, fidanzata del regista, alla sceneggiatura: e d'altra parte la disavventura della giornalista, accusata di spionaggio e scarcerata giusto in tempo per la proiezione del film a Cannes, è solo una diversa declinazione dei problemi correlati alla volontà di esprimere se stessi in Iran. La musica di Ashkan e Negar non è immorale, non è in polemica con gli insegnamenti del Corano: eppure per i due ragazzi l'unica possibilità di andare all'estero è quella di procurarsi passaporti e visti falsi. Entra così in gioco Nader, piccolo trafficante di film e cd musicali, fiero possessore di un merlo di nome Monica Bellucci ("la migliore attrice del mondo"), che promette ai due ragazzi i documenti di cui hanno bisogno. Ma l'affidabilità di Nader, che nonostante l'entusiasmo e la simpatia sembra anche un po' fanfarone, non è l'unica preoccupazione di Negar e Ashkan: bisogna anche mettere insieme una band perché, ennesimo insensato cavillo burocratico, c'è bisogno di certo numero di musicisti per avere l'autorizzazione ad esibirsi.
Il regista ci trasporta così nel regno della musica underground iraniana: un gioiello di creatività ed entusiasmo a cui però, come ai gatti del titolo (e ai cani), è proibito uscire di casa. Costretti a nascondersi tre piani sottoterra o a costruire una sala prove improvvisata sul tetto di casa propria, questi ragazzi non perdono la speranza, non abbandonano i loro sogni nemmeno davanti allo spettro di una retata, di un arresto, di vedersi sequestrare ancora una volta i propri strumenti. La musica è il collante che tiene insieme tutte le loro aspettative disilluse, il mezzo con cui sfogare la frustrazione di non poter esprimere nemmeno le più innocue istanze di un'intera generazione: ciononostante il film non ha mai un tono disperato, non perde tempo a compiangere le possibilità negate. Anche la scelta di non focalizzare l'attenzione sui modi sommari e ottusi della polizia, fatta eccezione per la splendida sequenza che vede protagonista Nader che, con finto servilismo, denuncia il malcostume nazionale, contribuisce a dare al film vitalità e leggerezza. E se queste, da una parte, rendono il panorama descritto ancora più struggente e desolante, dall'altra non possono che ispirare ammirazione per coloro che, come Negar, Ashkan e lo stesso Ghobadi, riescono a non arrendersi alla durezza della realtà.
Il regista riesce a conferire un'unità d'insieme a queste discordanti emozioni attraverso il ruolo importantissimo affidato alla musica, e alle sequenze in stile videoclip associate i brani musicali, che spaziano dal rock, al metal, al rap: entriamo così nella vera essenza di Teheran, incastrata tra la modernità di superstrade e grattacieli e l'oppressione imposta da chi cerca di difendere un'integrità che non è da nessuna parte. Perché, come canta un collega dei due protagonisti, "qui Dio non c'è", il bisogno di giustizia è continuamente negato; però Ashkan e Negar in Iran ci vogliono tornare, loro, come gli altri invisibili musicisti con cui condividono la battaglia, amano il proprio paese, e ne saranno l'unica possibile salvezza.

Movieplayer.it

3.0/5