Recensione Io e Beethoven (2005)

Il trattare con approssimazione i dettagli biografici non è il maggior difetto di una sceneggiatura nebulosa, prevedibile e infarcita di ampollose banalità nei dialoghi, cui si accompagna una regia maldestra che appesantisce la narrazione di sterili orpelli e di espedienti goffi e scriteriati.

La bella e la 'Bestia'

Il cinema torna a rivolgere il suo sguardo verso una delle figure più incisive e affascinanti della storia della musica, l'inimitabile Ludwig Van Beethoven, e lo fa attraverso l'opera della regista polacca Agnieszka Holland, che vanta una nomination all'Oscar per Europa Europa. Io e Beethoven, basato su un soggetto di Stephen J. Rivele e di Christopher Wilkinson, è incentrato sul personaggio fittizio di Anna Holtz, incantevole e talentuosa studentessa di musica che ottiene a dispetto dei pregiudizi sul suo sesso il posto di copista presso il grande compositore, che è alle prese con gli ultimi ritocchi alla leggendaria Nona Sinfonia.
Incidentalmente, la ragazza si ritrova a fare da baby sitter, consigliere e musa personale per l'anziano Beethoven, un uomo, manco a dirlo, sofferente e intrattabile, e occasionalmente feroce e volgare: il suo editore lo chiama "la Bestia".
Ora, gli anacronismi e le forzature sono inevitabili in quasi tutte le biopic: servono a fornire un ritratto ad uso e consumo di un vasto pubblico di personaggi complessi la cui personalità e la cui opera una vita di studi spesso non basta a padroneggiare. Ma scene come quelle in cui il Maestro snocciola i soprannomi delle sonate per pianoforte (nomignoli spesso inappropriati che lui non avrebbe mai utilizzato per indicare le sue composizioni) con tanto di associazione della Chiaro di luna al gesto indicato dall'inglese "to moon" (mostrare il didietro) è francamente un po' troppo da digerire.
Ma il trattare con approssimazione i dettagli biografici non è il maggior difetto di una sceneggiatura nebulosa, prevedibile e infarcita di ampollose banalità nei dialoghi, cui si accompagna una regia maldestra che appesantisce la narrazione di sterili orpelli e di espedienti goffi e scriteriati.

Se ci si vuole accostare a questo film pensando che alle delizie musicali che inevitabilmente procurerà agli amanti dell'opera beethoveniana, forse è il caso di pensarci due volte. Perché le musiche sono quello che sono, ma c'è modo e modo di utilizzarle, e la Holland lo fa per lo più nel modo peggiore possibile: basti pensare alla sequenza dell'esecuzione della Nona. Non si discute la centralità della sinfonia, che rappresenta una delle creazioni più emozionanti e grandiose dell'umanità; è comprensibile che qualsiasi racconto che tratti della vita di Ludwig Van Beethoven viva il suo zenith con il trionfo viennese della Nona. Ma Io e Beethoven trasforma una buona esecuzione della sinfonia in un'aberrazione musicale: oltre a "condensare" l'opera in maniera da sbrigare in pochi istanti i quattro movimenti per arrivare in tempi cinematografici al celebre (e ormai stucchevole) finale con l'Inno alla gioia, ci mostra il compositore che, impossibilitato a dirigere a causa della sordità, conduce i suoi musicisti con la guida della bella Anna che si dimena in mezzo all'orchestra.

Non bastano a salvare dal naufragio questa pellicola le interpretazioni di Diane Kruger e di Ed Harris, sebbene lei sia misurata e angelica, e lui l'attore che sappiamo. Difficile dire quanto dipenda dai macroscopici difetti del film, ma il Beethoven di Harris ci è piaciuto molto meno di quello, pure gigione ma ben più commovente, credibile e dignitoso, di Gary Oldman in Amata immortale.

Movieplayer.it

2.0/5