Erano gli anni del culmine della lotta del movimento femminista, del trionfo della rivoluzione sessuale: le donne erano uscite dalle cucine e dai saloni dei parrucchieri per scendere in strada e conquistarsi gli spazi tradizionalmente dominati dagli uomini. Guardarci indietro in questi giorni, pensando alla riservatezza, al coraggio di un'icona come Billie Jean King, fa scendere un velo di tristezza, un'ombra di vergogna. Di pochi giorni fa è la valanga di attacchi indirizzati verso la ministra Boschi per essersi azzardata a parlare di parità salariale per le giocatrici di calcio anche in Italia, e ancora in queste ore furoreggiano le polemiche, le paternali e gli attacchi alle attrici che hanno denunciato le molestie di Harvey Weinstein, ex domineddio di Hollywood.
Leggi anche: Il caso Weinstein: lo scandalo "segreto" che può cambiare per sempre Hollywood
Lo possiamo chiamare benaltrismo: in fondo c'è sempre qualcosa di più importante dei diritti e della sofferenza delle donne e degli omosessuali. O possiamo dire pane al pane, affrontare mestamente la realtà, e ammettere che se sei nata femmina ti è geneticamente impossibile azzeccarne una, dovessi campare cent'anni.
Beh, Billie Jean King non c'è stata, e non ci stiamo neppure noi. Davanti al muro di gomma della dirigenza dell'ATP di fronte alle richieste di equiparare i premi della giocatrici con quelli dei colleghi maschi, lei si ribellò, lanciò un boicottaggio in cui fu seguita dalle tenniste più forti del mondo e creò una lega professionistica tutta al femminile che diede vita al suo tour, ai suoi tornei, alle sue battaglie. Tutte le atlete sono debitrici nei confronti di King, e non solo loro.
Valerie Faris e Jonathan Dayton raccontano al cinema una storia che, per quanto sia difficile comprendere come non sia ancora approdata sul grande schermo in quarantaquattro anni, lo fa oggi con un certo felice tempismo.
Leggi anche: Da Doctor Who a Ghostbusters e Alien: quando i film vengono riscritti al femminile
Tutte in campo con Billie Jean
Il film della coppia di cineasti a cui dobbiamo Little Miss Sunshine e Ruby Sparks racconta le circostanze in cui si svolse uno degli eventi sportivi più chiacchierati di sempre, la cosiddetta "Battaglia dei Sessi", combattuta su un campo da tennis.
Pochi mesi prima, l'istrionico, eccentrico e cialtrone Bobby Riggs, ex campione cinquantacinquenne aveva sfidato e sconfitto la campionessa australiana Margaret Court, in qualche modo giustificando la resistenza di Jack Kramer e dell'ATP a riconoscere l'uguaglianza alle tenniste.
Di fronte al pernicioso risalto dato dai media a questa rivincita maschia sulle donne e le loro pretese, la battagliera Billie Jean King non potè fare altro che raccogliere a sua volta il guanto della sfida e cambiare il sistema prendendolo a pallate, e tutte le donne con lei. Affrontando dilemmi che le femministe e i loro alleati movimenti LGBT conoscono bene: esporsi significa esporre, la propria vita privata, i propri affetti, la propria "reputazione". E Billie Jean, mentre cambiava la storia del tennis, cambiava anche lo scenario del suo cuore, perché si stava innamorando di una giovane donna e stava assistendo al crepuscolo il suo matrimonio con il promoter Larry King. La sceneggiatura de La battaglia dei sessi, firmata dal britannico Simon Beaufoy (già premio Oscar per The Millionaire di Danny Boyle) dà ampio spazio alla dolcezza, agli ostacoli al sentimentalismo di questa passione clandestina, così come dà spazio al dolente privato del "porco sciovinista" autodichiarato Bobby Riggs, regalando umanità ed equilibrio a personaggi che dopo il loro scontro epocale divennero grandi amici, e offrendo agli eccellenti Emma Stone e Steve Carell il destro per mostrare ancora una volta la duttilità del loro talento.
Leggi anche: Emma Stone, che occhi grandi che hai: una carriera da favola e da Oscar
La campionessa e il giullare
Per buona parte de La battaglia dei sessi, per quanto Emma Stone abbia lavorato egregiamente sull'espressività, la fisicità, i gesti della vera King, quella che Beaufoy immagina e quella che Faris e Dayton fanno emergere è una Billie Jean più timida e vulnerabile e assai meno esuberante di quella che abbiamo conosciuto sui campi da tennis e fuori: la dimensione intima della storia d'amore con la Marilyn Barnett della soave Andrea Riseborough (complice il ruolo ambiguo e marginale ritagliato per Larry King) non è l'elemento gestito meglio dal punto di vista degli equilibri narrativi, ma permette a Stone di costruire gradualmente una consapevolezza e un coraggio che le consentano di far deflagrare tutta l'energia che associamo alla campionessa nell'entusiasmante finale.
Carell, da parte sua, abbraccia con il consueto gusto l'ambiguità di un personaggio eccessivo, profondamente imperfetto, giocosamente ripugnante ma anche riprovevole nel suo approfittare della battaglia per i diritti della donne per il proprio tornaconto. Ma sceneggiatore e registi si sforzano di non fare di Bobby Riggs l'antagonista, l'odiosa nemesi dell'eroina, ma lo strumento di un potere ben più retrivo e più grande di lui; come sono strumenti spesso ignari di un sistema ingiusto e duro a morire coloro che oggi ostacolano, sminuiscono e irridono come "politically correct" la lotta per un mondo più egalitario ed empatico, soffocando le potenzialità, la dignità e la libertà di una consistente porzione di umanità.
Leggi anche: Wonder Woman è l'ambasciatrice di una rappresentazione femminile in continua evoluzione
Gioco, partita, incontro
La parte centrale de La battaglia dei sessi, che segue un inizio scoppiettante ed è costruita in maniera forse un po' stanca e poco inventiva sulle vicende personali dei due futuri avversari, viene giustificata quasi del tutto dal segmento conclusivo, quello che inscena il match. I due registi hanno studiato le immagini dello storico incontro che si tenne all'Astrodome di Houston, hanno chiesto ai loro interpreti di imparare a giocare, hanno utilizzato controfigure versate in uno stile tennistico vintage e hanno così saputo restituire le dinamiche e l'atmosfera dell'evento, ma anche, finalmente, la determinazione e la grinta dell'autentica Billie Jean King, con la sua impassibilità di fronte alle buffonate di Riggs e la sua leggendaria aggressività a rete, e soprattutto la consapevolezza e la fede nella sua giusta causa.
Naturalmente questo non fa dell'opera terza di Dayton e Faris un film sul tennis: La battaglia dei sessi è un piacevole crowd pleaser con eccellenti interpretazioni, ottimamente fotografato con pellicola e lenti d'epoca per restituire il look anni '70, ma quello che conta per noi, inutile negarlo, è la sua capacità di fare arrivare attraverso uno spettacolo accattivante una richiesta di ascolto e compassione. Perché, nella battaglia per l'uguaglianza salariale, la dignità delle donne e i diritti civili, il match point è ancora lontano.
Movieplayer.it
3.5/5