L'uomo delle stelle
Beth è bella, genuinamente dolce e sensibile e arranca perché scrive libricini per bambini pur provenendo da una famiglia ricca. Adam è un ingegnere abitudinario dalla mente brillante, che non guarda mai negli occhi i suoi interlocutori ed è un ossessivo compulsivo con un planetario nel salotto. A lei ha appena spezzato il cuore il suo ex, a lui la perdita del padre. I due appartengono a universi che sembrano ricalcare i più incantevoli classici dei romance hollywoodiani e il loro incontro scatena uno degli effetti butterfly più sinuosi e deliziosi della cinematografia contemporanea. Come ne La mia vita a Garden State, che viene citata con un'immagine che i fan di Zach Braff riconosceranno piacevolmente, la storia sentimentale s'intreccia a quella emozionale permettendo ai protagonisti d'avventurarsi per una meravigliosa favola nuova, mai banale né glicemica. Il percorso del risveglio degli animi sopiti a partire da un reboot del passato qui è sostituito, al contrario, da un cammino orientato verso il futuro: i protagonisti evolvono progressivamente e ritrovano se stessi nella scoperta dell'altro.
Il protagonista che dà il nome all'opera di Max Mayer, regista più noto per i pilot di serie tv di culto come Alias e West Wing e vincitore con questo film del premio Alfred P. Sloan al Sundance Film Festival del 2009, è affetto dalla sindrome di Asperger, ma, esattamente come il titolo del libro che la direttrice della scuola suggerisce a Beth, finge di essere normale. Ad essere veri e autentici, e il film basa il suo bilancio simbolico sul peso delle menzogne nei rapporti interpersonali, sono però i sentimenti del giovane: il suo cuore funziona perfino meglio del muscolo più razionale dei "n.t." (neurotipici), ma con la differenza che le sue parole non vengono mai filtrate dal più lucido raziocinio e il pensiero si libera sempre istantaneo e sincero al punto da non distinguere tra amore e dipendenza. L'onestà del personaggio, che lui sintetizza con sorprendente autoironia nell'incapacità di "parlare normale", lo trascina spesso nell'isolamento dagli altri e in attacchi di feroce incomprensione delle cose: ad allontanarlo non è la sua forma di autismo, ma il suo essere puro, perfettamente incontaminato dalla società di lupi famelici con cui convive (e l'economia narrativa lo sottolinea nel confronto con Marty Buchwald, la figura paterna negativa). Quella che lui chiama "cecità mentale" viene allora intesa come una modalità di affacciarsi sul mondo e d'interpretarlo senza dover necessariamente ricorrere a un codice di traduzione standard: perfino osservare i procioni di notte a Central Park, quando s'incontrano tra di loro, lontani dal resto degli abitanti di New York, si materializza in una cifra simbolica e poetica, diventando una metafora della non inadeguatezza alla mediocrità diffusa. Ed è questo sguardo sulla realtà e nelle persone che permette a Beth, l'Amélie Poulain del nuovo star system americano interpretata dalla tenera australiana Rose Byrne, di superare le barriere che la vorrebbero al fianco dell'ultimo riccone principe azzurro di turno. Il rapporto tra i protagonisti rigenera il concetto preconfezionato di relazione tra uomo e donna e avvia entrambi a un'empatia già ritratta nel cinema con garbo in film indimenticati come Mi chiamo Sam, l'irresistibile WALL·E e il più recente e raro I'm Here di Spike Jonze. Adam è un film toccante che non sbriciola leit motiv sociologici per fare presa sul pubblico, ma scioglie i suoi nodi - il male di vivere, l'amore complesso, le difficoltà nella comunicazione, il rapporto padre-figli - catturando magicamente il cuore del pubblico. L'apertura di Adam verso l'esterno rappresenta uno slalom tra quelle differenze sociali e psicologiche che in pellicole zemeckisiane ne farebbero un borderline come Forrest Gump, dal quale non a caso tiene a differenziarsi pur somigliandogli nella visione personale della "normalità" e nei suoi atteggiamenti impacciati. Mayer ha il merito di concepire il suo progetto quasi con quell'ordine maniacale in cui il protagonista si rannicchia, e che non viene banalmente rovesciato dalla conoscenza della ragazza, ma viene mantenuto e condiviso. Allo stesso modo lo porta avanti in una parabola travolgente fino all'epilogo, che tuttavia non è saturo di un opacismo sentimentalista. Il regista sa enfatizzare con abilità, coadiuvato da una colonna sonora da colpo di fulmine (con un imperdibile Joshua Radin), i momenti più commoventi del film, ma non cade mai nell'errore di vezzeggiare il suo protagonista per l'Asperger riuscendo così a equilibrare il pathos della sua fragilità e il realismo fiabesco in cui si accoccola. Le connessioni emotive tra i personaggi si dirigono con estrema naturalezza nel messaggio di Adam, che trapela dallo sguardo sicuro e intenso del sorprendente inglese Hugh Dancy perfino nei tic più rischiosi, in una comprensione dell'amore, che va ben oltre l'emblematica normalità e affonda le mani in un senso primordiale d'intimità che faremmo bene a recuperare.