L'erba di Dalia
Il morbo d'Alzahaimer, con le sue tragiche manifestazioni che incidono direttamente nella psiche dell'individuo, al punto da cancellarne la sua stessa identità, rappresenta di certo un tema particolarmente problematico e scivoloso da rappresentare al cinema, come dimostrano anche due recenti tentativi in ambito mainstream non del tutto riusciti, vale a dire l'americano La versione di Barney e l'italiano Una sconfinata giovinezza. L'opera messicana Las Buenas Hierbas, presentata in concorso al quinto Festival di Roma, si muove però in una direzione del tutto differente rispetto ai due esempi citati: quello del cinema indipendente e autoriale, realizzato in digitale con pochi mezzi e con la tipica naiveté di molte produzioni del Sud del mondo. Il film della regista María Novaro, una delle più apprezzate autrici del suo Paese, si caratterizza inoltre per affrontare l'argomento da un insolito punto di vista, sottolineando le strette connessioni esistenti tra mondo naturale (e in particolare quello vegetale) con le emozioni e le sensazioni umane.
Strutturato in una serie di capitoli - ciascuno dei quali dedicato a una diversa specie d'erba medicinale, di cui sono illustrati gli effetti sull'organismo umano - Las Buenas Hierbas racconta la storia di Lala, una scientifica etno-botanica, e di sua figlia Dalia, che collabora con una radio indipendente. La vita di Dalia, che deve occuparsi anche del figlio Cosmo, cambia bruscamente quando la madre contrae il morbo d'Alzahaimer. La regista descrive in maniera accurata e veritiera il progressivo manifestarsi dei sintomi, la cui gravità si acuisce sempre più fino a pregiudicare del tutto la vita della donna e a minare la serenità delle persone a lei vicine. Parallelamente, Lala tenta con le ultime forze mentali che le restano di coinvolgere la figlia nel suo lavoro erboristico, che attinge addirittura alle antiche pratiche tramandate dagli aztechi. Alternando una rappresentazione intimista della quotidianità famigliare con una messa in scena della rigogliosità del mondo vegetale, Las Buenas Hierbas tanta di esprimere una visione panteistica dall'esistenza, in cui il destino di uomo e natura sono inesorabilmente (quanto imperscrutabilmente) intrecciati. Il punto di forza del film sta nel rappresentare in maniera veristica e senza alcun tipo di edulcorazione, ma al contempo evitando patetismi e ricatti emotivi, il lancinante calvario della malattia. Da questo punto di vista gran parte del merito è da attribuire alla recitazione della coppia d'interpreti - Úrsula Pruneda nel ruolo di Dalia (premiata in vari festival) e Ofelia Medina (un vero e proprio mito in Messico) in quello di Lala -, dotate entrambe di un'impostazione naturale e mai sovraccarica. A difettare invece è proprio la messa in scena di María Novaro che, affidandosi a uno stile invisibile e semidocumentario contraddistinto da tempi dilatati e dalla predilezione per il pianosequenza, consegue l'obiettivo del realismo ma forse finisce per non imprimere una forte visione registica. Anche dal punto di vista narrativo il film si caratterizza per una generale mancanza di nerbo e per uno sviluppo sfilacciato della trama che, focalizzandosi solo sul rapporto madre-figlia, mette da parte gli intrecci secondari (come ad esempio la relazione sentimentale di Dalia, oppure la storia della vicina di casa e della sua nipote quindicenne). Rimane comunque encomiabile il tentativo della regista di documentare una malattia di così difficile rappresentazione al cinema, inquadrando il fenomeno da un'insolita prospettiva e affrontando con pudore temi decisamente delicati come quello dell'eutanasia.