L'asilo dei soldatini cinesi
Tratto dal romanzo semi-autobiografico di Wang Shuo, uno degli autori contemporanei più famosi della Cina, La guerra dei fiori rossi racconta quel particolare momento della vita di ogni bambino che è l'ingresso nel mondo scolastico e, quindi, la socializzazione con i propri coetanei e il confronto col mondo esterno, fatto di insegnamenti e regole che poco si sposano con lo spirito ribelle che caratterizza di solito l'infanzia. Visto l'argomento, vengono subito in mente quei grandi maestri francesi (Vigo, Truffaut, o anche il più recente Philibert) che hanno portato al cinema, con grande efficacia, l'infanzia tra i banchi di scuola, ma il film di Zhang Yuan, presentato lo scorso anno a numerosi festival, tra i quali Berlino e il Sundance di Robert Redford, non sa reggere il confronto, adagiandosi su una ricerca esagerata di un tocco delicato che finisce col rendere il film piatto, noioso, privo di ogni slancio vitale, un peccato davvero imperdonabile vista la tenera età dei suoi protagonisti che avrebbe richiesto tutt'altro approccio.
Eppure, è proprio questa la Cina scolastica che vuole mostrarci Yuan, una caserma educativa che toglie ai bambini il proprio colore e li rende anonimi, conformisti, corpi meccanici che compiono le stesse azioni, negli stessi tempi, secondo le stesse disposizioni. Ambientato in un'epoca imprecisata, ma probabilmente nella seconda metà del 1900, il racconto di Yuan ruota tutto intorno al piccolo Fang Quiangqiang (appena quattro anni) alle prese col suo primo anno d'asilo. Costretto a vedere i propri capelli tagliati e ad obbedire ciecamente alle regole imposte dalle insegnanti (vestirsi da solo, espletare i propri bisogni fisiologici appena sveglio con tutti gli altri bambini, lavarsi le mani prima di mettersi a tavola, ecc) per collezionare i fiorellini rossi, che identificano il "bravo cittadino", il piccolo farà fatica ad adattarsi a questi nuovi rituali che richiedono pronta obbedienza, ed esprimerà il proprio disagio bagnando il letto di notte e facendo piccoli dispetti.
Nel film si alternano passaggi d'indubbio fascino (le sequenze oniriche che vedono il protagonista aggirarsi nudo e libero nella neve) a lunghi vuoti dove a prevalere è la noia per questa vita scolastica in cui, in fondo, non succede granché. Anche la scoperta dell'esistenza dell'altro sesso non ha una resa adeguata, risolta con gli ennesimi piagnucolii infantili più che con la dolcezza e la trepidazione delle prime scoperte. Zhang Yuan si rifà esplicitamente allo Jean Vigo di Zero in condotta, ma non ha il suo piglio travolgente, la sua carica anarchica. Si limita, infatti, a ritrarre un placido beccarsi tra allievo e insegnanti senza spingersi mai oltre, lasciando fuori ogni impeto ribelle. In questo asilo "politico", dove non entrano le storie private dei bambini, tutti fanno quello che viene detto loro di fare, con spirito arrendevole, proprio come i soldatini che marciano fuori la scuola, secondo gli ordini del proprio comandante.
C'è molta Italia in questo film: prodotto da Marco Muller, in associazione con Rai cinema e Istituto Luce, La guerra dei fiori rossi può fregiarsi del bel montaggio di Jacopo Quadri, già montatore di film come The dreamers - I sognatori, L'odore del sangue e Tropical Malady, che cerca di tenere insieme un film in cui, essenzialmente, manca una storia forte da raccontare. Completamente sballate, invece, le musiche dell'altro italiano impegnato in questa produzione, Carlo Crivelli, tra motivi di derivazione disneyana, vaghi echi di tradizione cinese e un fastidioso stridio di violini a voler sottolineare i passaggi che farebbero presupporre una sorta di tensione che però resta sfuggente. Certo il doppiaggio non aiuta a godere di questo film che trova nell'interpretazione dei suoi piccolissimi protagonisti una delle sue carte vincenti, ma i problemi più grandi vanno ricercati in fase di sceneggiatura. Si è voluto rendere a tutti i costi "delicata" questa storia, senza caricare alcun aspetto, abbassando i toni e documentando ogni singolo piagnisteo. Nel film manca proprio quella "guerra" evocata nel titolo, manca la rivoluzione dei fiorellini, lo spirito ribelle insito in ogni bambino. Manca la forza di osare. Ma volando così in basso difficilmente si riesce ad arrivare nei cuori degli spettatori.