L'antropologo redentore
Se l'horror più attraente si rappresenta non tanto come genere ma come pensiero cinematografico in continua evoluzione, teso a elaborare, scoprire e inventare (al minimo) culture, (un po' più nel profondo) fenomeniche di un reale non conosciuto e (in abisso) coordinate spazio-temporali eterogenee rispetto a quelle normalmente esperite, facendole vivere della vita segregata ma ontologicamente vera che è la qualità intrinseca delle immagini cinematografiche, allora Il serpente e l'arcobaleno, decimo film di Wes Craven, girato nel 1988 e tratto dall'omonimo saggio di Wade Davis, scienziato e sociologo di grido, si dichiara espressione di questo pensiero fin dalla didascalia iniziale che si legge prima ancora dei titoli di testa. Qui si fa esplicito riferimento a una cultura altra, quella voodoo, e si dice che, in tale ambito, due simbologìe hanno un ruolo fondamentale: il serpente e l'arcobaleno, appunto, il primo dei quali rappresenta la dimensione terrestre e il secondo metaforizza il cielo.
E, di certo, fin dalle prime sequenze, montate secondo una fraseologia ellittica e sbrigativa - asintattica, diremmo -, lo spettatore non può non intuire che l'orizzonte culturale nel quale sta per essere immerso è, di fatto, altra cosa rispetto alla realtà quotidiana. Lungo il Rio Negro amazzonico, prima, e, dopo, nell'isola di Haiti, Dennis Allan, antropologo in carriera, e uomo intrepido e senza macchia - come ogni eroe americano che si rispetti -, incontra stadi di realtà non conciliabili con il razionalismo scientifico occidentale. In Amazzonia, mentre è alla ricerca di piante medicinali, uno sciamano lo preavverte, attraverso una magica pozione, degli accadimenti futuri, precipitandolo in un universo onirico che confonde i tempi e gli spazi: Allan è catapultato in una realtà oscura e inconoscibile - e l'Amazzonia è labirinto senza uscita - che si può ridurre a comprensione, e quindi affrontare, solo grazie all'aiuto del proprio spirito animale, e alla consapevolezza che un diafano esemplare di tigre riesce a conferirgli. Ad Haiti, invece, si ambienta il plot narrativo del film: Allan è inviato lì da una compagnia farmaceutica interessata a verificare e far propri i processi di zombificazione al fine di mettere a punto un rivoluzionario anestetico che salverebbe migliaia di persone destinate a morire sotto operazione (leggasi: una medicina miracolosa che moltiplicherebbe il fatturato dell'azienda); appena arrivato, però, Allan viene subito a contatto, attraverso il sacerdote Céline e la dottoressa Marielle, con un universo ove l'umano si mischia al divino, senza soluzione di continuità e secondo logiche illogiche di assoluta compenetrabilità; dentro una realtà sincretica, all'interno della quale non è dato distinguere tra voodoo e cattolicesimo, tra sensualità e misticismo, e tra scienza e magìa, la possessione di Marielle, che viene cavalcata dalla dea Ersili, l'istrionismo magico di Mozart - strana sorta di bookmaker che sa fabbricare la polvere che genera gli zombi -, e la felicità pastorale di un popolo tuttavia oppresso dalla violentissima dittatura dei tonton macoute di Duvalier proiettano spettatore e personaggio nella posizione d'io partecipante sulla quale ha dibattuto, per decenni, l'antropologìa contemporanea.
Ed è qui, da questo versante del film, che scaturisce il Craven che non t'aspetteresti: l'abile artigiano degli effetti speciali si trasforma, infatti, in un - quasi - rigoroso documentarista, riesumando, forse, lo sguardo imparziale e indagatore di certo horror degli anni Settanta, che lo avevan visto protagonista con L'ultima casa a sinistra e Le colline hanno gli occhi (titolo quanto mai paradigmatico!) assieme al film-manifesto di quell'epopea di ricerca e d'analisi, il troppe volte frainteso Non aprite quella porta di Tobe Hooper. Craven diviene, così, sguardo puro - e non più artefice alchemico -, volto a osservare una realtà nuova degna di conoscenza: ecco che si palesano, allora, le panoramiche in piano totale sulle processioni rituali di Haiti e le lunghe sequenze macchina a spalla a cercare di catturare il respiro profondo di un mondo a sé, con i riferimenti a un pantheon quasi primitivo, la vitalità inesausta e semicompulsiva, le movenze come dettate da un passo di danza, la condivisione e la collegialità, sempre presenti - nella speranza atterrita degli inizi del film come nella liberatoria rivoluzione che si pone a conclusione -. In incipit, com'è ovvio, questo sguardo equanime e premuroso si concentra soprattutto sulla visione dei primi zombi che Allan e Marielle hanno modo d'incontrare: sugli occhi inorriditi di Magrit, colmi di un terrore soffocante, e sulla figura altera e dolente di Cristophe, il personaggio-zombi da cui parte la ricerca e che, alla fine, diverrà motore immobile della riscossa e della salvazione.
Da questo punto di vista, allora, si può misurare l'enorme distanza che separa i primi zombi di George A. Romero, simboli straordinari eppur privi - scelta poetica e filosofica - d'ogni spessore psicologico, dalle creature omologhe di Craven, la cui rappresentazione, al dunque, si rifà proprio alla credenze di una cultura antica, che ha sempre convissuto con l'idea dello zombi, morto-non morto nel senso letterale della contraddizione, morto per vìa di polvere magica, uomo cui è stata sospesa la vita per un periodo tanto breve - dodici ore - eppure sufficiente a privarlo, in un'ottica scientifica, di funzioni cerebrali elementari e, in senso metafisico, del possesso della propria anima.
Ed è attorno a questo concetto della zombificazione come possessione magica della coscienza che il film di Craven sterza, quasi senza preavviso ma in modo funzionale alla cultura che racconta - ove, come detto, ogni antinomia si riassorbe nel defluire delle cose -, verso altre tipologìe di storia, metafora e modi della rappresentazione: a partire da questo crocevia, la storia de Il serpente e l'arcobaleno si concentra sullo scontro tra l'eroe americano che porta la democrazia, la libertà e il diritto e lo spirito atavico di sopraffazione che anima chi detiene il potere nei sistemi illiberali; paradigma da sempre molto caro alla cultura statunitense e, da sempre - non è il caso del buon Craven: così crediamo -, ostentato a giustificare qualsivoglia intervento provenga da Washington e dintorni; alla fine, dopo un tourbillon di scontri all'ultimo sangue, la libertà trionferà; e dal «faccino pulito» - così lo chiama il capo dei tonton macoute - e dallo sguardo redentore di Allan discenderà l'emancipazione non solo di un intero popolo - dentro un alternarsi paradossale di zuffe da cinema western e sequenze di repertorio - ma anche di tutti gli zombi che, con la fine del Regime, potranno finalmente tornare in possesso di sé, se non come carne almeno come coscienza e anima (nota bene: si tratta di un assunto esattamente opposto a quello romeriano, per il quale, almeno ne La notte dei morti viventi, gli zombi detengono il controllo della carne ma han perso, in via definitiva, ogni afflato di coscienza e di anima). Com'è ovvio, il duello titanico tra Bene e Male implica anche una metamorfosi dello sguardo: così, in tutta quella parte di pellicola in cui l'archetipo della lotta di frontiera torna a farla da padrone, l'immagine-azione, con i campi e i controcampi, l'attenzione ossessiva allo scarto minimo del movimento del personaggio e a tutte le reazioni indotte dalle azioni, i primi piani trasudanti pensieri di vendetta e l'estetica dello scontro fisico resistente alle leggi di natura - come se i personaggi fossero di gomma -, vanno a sostituire quell'immagine-percezione, quella curiosità antropologica, che era, e rimane, la vera novità del film, non solo nell'ambito dell'opera di Craven ma anche, e soprattutto, nell'epifanìa cinematografica del mito dei morti viventi. In tale contraddizione narrativa e rappresentativa sta il fascino di un film che non finisce mai di sorprendere.