L'amore ai tempi dell'11/9
John è un giovane e solitario soldato delle forze speciali americane in licenza nel Sud Carolina, dove incontra la sensibile altruista Savannah, che si trova lì per le vacanze estive. Tra i due scocca subito la scintilla e in due settimane, sebbene l'uno sia pragmatico e l'altra idealista, si lasciano travolgere da un forte amore reciproco. Quando John torna in missione iniziano una classica corrispondenza epistolare per superare il tempo e la distanza, ma dopo l'attacco alle Torri Gemelle il tempo del distacco dal ragazzo, che ha dato ascolto al proprio dovere militare, si prolunga e diventa sempre più pesante. Il loro amore viene allora messo a dura prova e rischia di frantumarsi sotto il peso della lontananza.
Cronaca di un amore giovane più incantato che incantevole e di un trasporto più tenero e fotogenico che passionale ed empatico, Dear John è un film drammatico di un sentimentalismo non melenso ma ingenuo che traccia le coordinate di una love story attuale. La tragedia degli affetti è infatti ambientata nel 2001 e il riferimento all'11 settembre viene utilizzato come canovaccio di geometrie più disordinate di quanto il semplice intreccio amoroso lasci immaginare: al soufflé del leit motiv dell'autore Nicholas Sparks, dal cui famoso The Notebook è tratta la sceneggiatura, si accompagnano temi meno leggeri come la guerra, l'autismo, il conflitto generazionale e perfino la lotta al tumore. Già collaudata nei precedenti Hachiko - Il tuo migliore amico, Chocolat e Le regole della casa del sidro (valso la seconda nomination agli Oscar), la consueta formula dello svedese Lasse Hallström che attiva intorno a una storia d'amore micro-corti circuiti di presa sicura sul grande pubblico, quasi come a distrarli da un nucleo poco consistente, funziona, almeno per chi non teme l'inevitabile coma diabetico. Così le intermittenze del cuore dei due protagonisti, arrotolati in un amore che si riscalda al chiar di luna, richiamata fino all'ossesso nel film, ma che si rivela presto un fuoco di paglia, risultano funzionali ai lacrimoni in agguato sotto le ciglia. L'immagine del film che ne riassume la direzione la troviamo nella sequenza del pre-addio tra John e Savannah sulla spiaggia: vediamo alle loro spalle un aquilone in lontananza che sembra stia per prendere il largo, esattamente come la loro storia. Il regista sembra avvertirci con la delicatezza a cui ha abituati che gli eventi presto prenderanno una piega inaspettata: la scena, quasi profetica nella struttura narrativa, rappresenta una mano tesa verso lo spettatore e sigla, non a caso, l'inizio di un rovesciamento della storia e di un'accelerazione necessaria del ritmo, glassato nel seguire la storiella balneare fino a quel momento. L'amour fou viene sospeso per accogliere esorcismi politically correct, da perfetto manuale del calore umano firmato Sparks: John si autodefinisce una "moneta dell'esercito americano" ed è difficile, dopo aver guardato un soldato un po' disilluso come lui, non pensare alla demagogia pacifista di Nato il quattro luglio: il conflitto armato in Afghanistan passa per missione umanitaria e, pur non esaltando il corpo dei berretti verdi, le scene finiscono con un'estetica squadrata per mostrarne un'unica faccia, che è figlia legittima del bushianesimo. Una dose massiccia di lacrime viene invece versata, irrimediabilmente, per la storia tra padre e figlio, che trova il suo apologo nella caratterizzazione del padre autistico: il gap tra John e il signor Tyree (un immenso Richard Jenkins), dovuto anche alla mancanza della figura materna, è esteso dalla difficoltà con cui l'uno non può comprendere l'altro, nemmeno volendolo. A unirli è la passione dell'uomo per la numismatica, che in qualche modo permette di arenare le incomprensioni e le differenze. Ma l'abbinamento del rivolo familiare e dell'handicap, che ricorda il più riuscito Buon compleanno, Mr. Grape, affievoliscono solo per alcune intense sequenze le debolezze del film, che gli interventi musicali misurati provano ad addolcire con garbo. Il tema, benché sviluppato con la giusta profondità dallo sciropposo Hallström, non riesce a emergere abbastanza dalla trama e si ha l'impressione che sia l'ennesimo tentativo dello sceneggiatore Jamie Linden di far leva sui sentimenti. Allo stesso modo l'epilogo felicemente risolutivo, che accontenterà con consensi unanimi gli inguaribili romantici, farà storcere il naso a non pochi spettatori: l'happy end appare all'improvviso a stemperare il dramma delle schermaglie della seconda parte del film, ma si presenta più come una dirittura d'arrivo imboccata all'ultimo minuto per non mortificare le aspettative dei cuori teneri che una scelta decisa nell'economia del racconto. A renderci meno tristi resta la piacevole sorpresa di Channing Tatum, che ruba la scena alla collega Amanda Seyfried e si riscatta dai due Step Up rivelando una bravura formidabile nell'interpretare il ruolo del protagonista ed evitando le trappole del sentimentalismo tormentato.