"Da piccolo i miei genitori mi hanno insegnato a dire Inch'allah quando metto in programma di fare qualcosa", recita la prima battuta della voce fuori campo che accompagnerà lo spettatore per tutto il film. La recensione di Kufid, in sala dal 17 giugno, vuole partire da quell'asserzione, destinata a infrangersi poco dopo contro l'irrompere del Covid. Le implicazioni di quella rottura sono gli interrogativi che il regista Elia Moutamid cercherà di sollevare nel corso di un documentario girato durante il lockdown del marzo 2020 a Brescia. Ne viene fuori non una semplice cronaca della pandemia, ma una riflessione più ampia sul concetto di identità e integrazione, condito da siparietti ironici soprattutto quando a finire nel mirino è la retorica popolare dell'"andrà tutto bene", che da lì a poco si sarebbe sgretolata davanti alla realtà incalzante, lasciando un assoluto senso di smarrimento al posto del fervore iniziale che aveva invasato milioni di italiani affacciati ai balconi.
Un viaggio autobiografico
La genesi di Kufid parte da molto lontano, esattamente dal dicembre 2019 quando il regista si trova in Marocco per il sopralluogo di un documentario sulla progressiva gentrificazione della sua città d'origine, Fes. Elia è nato lì, ma non ci è cresciuto, e lì è dove suo padre ha deciso di tornare dopo quaranta anni in Italia. Rientra a Brescia dove vive, con tutto il materiale sufficiente a iniziare a girare, ma qui deve fare i conti con i primi terribili momenti della pandemia. Tutto si ferma, le strade si svuotano, le serrande dei negozi si abbassano, le attività non essenziali di un intero paese si bloccano, i cittadini si ritrovano bloccati in casa per mesi, i più fortunati potranno beneficiare dei propri terrazzi o giardini per accogliere la primavera incipiente. Ma invece di abbandonare il progetto Moutamid prende il materiale raccolto e lo trasforma, gli ridà un senso iniziando un viaggio autobiografico completamente diverso dalle intenzioni iniziali. L'isolamento domestico lo porta a scrivere un diario che si sviluppa su più binari: la cronaca, la sfera privata, le vicende familiari, i ricordi di infanzia, il flusso di coscienza. Il risultato è una creatura ibrida in cui, tra istanze antropologiche e bisogno di raccontare quel senso di sospensione, il regista si fa domande, si arrovella in un confronto incessante con un'entità, Kufid appunto, che dà il titolo al film.
Quell'invocazione sarà per tutto il film il modo con cui Elia ha deciso di dare un nome e un volto al Covid, esorcizzando la paura e rappresentando la furia improvvisa e silenziosa con cui sconvolge le vite, senza però con altrettanta irruenza abbattere stereotipi e pregiudizi.
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Kufid, entità e personaggio
In mezzo c'è una narrazione lucida ed equilibrata che procede su più livelli: il regista riesce a intrecciare il racconto puramente cronachistico e lineare con quello più astratto e incline alla riflessione esistenziale.
Da un lato le strade deserte, il suono delle sirene, il rumorio confuso delle voci che in quei giorni affollano la rete, i messaggi alla nazione, le videochiamate che hanno preso il sopravvento nell'urgenza bulimica di sentirsi connessi, le fabbriche ferme, le cascine abbandonate della Bassa Padana tristi e inquietanti come "vecchi clown, se le osservi da lontano fanno tenerezza", dall'altro le immagini del Marocco che ci ricordano cosa sarebbe dovuto essere Kufid, frammenti della vecchia conceria della città di Fes e della trasformazione che le si è scaraventata addosso. Perché insieme a Kufid, l'altro termine che tornerà più volte nel corso di appena un'ora di film, sarà gentrificazione: case svendute a prezzi irrisori e diventate alberghi e ristoranti in nome di una selvaggia riqualificazione, che ha sacrificato i vecchi quartieri medioevali di Fes all'attrazione turistica.
Mentre fuori i fatti si susseguono, il dialogo tra Elia Moutamid e Kufid, personaggio del film a tutti gli effetti seppur solo invocato, continua senza sosta passando dall'italiano all'arabo, tra ironia, preoccupazione e un inaccettabile senso di impotenza: "Kufid, quello che mi chiedi di fare non è umano", dirà il regista durante uno di questi serrati scambi di battute. L'impatto di Kufid sulla vita di Elia si traduce in questa disamina originale, che scava tra i ricordi di infanzia e conduce il regista a considerare l'importanza delle radici, combinando e scombinando piani temporali e spaziali diversi. Senza tralasciare la questione di cosa sia l'integrazione, di quanto sia complicato e frustrante "passare l'esistenza a dovere dimostrare costantemente chi sei, un musulmano moderato, un manager..." e a "difendere il paese che ti ha cresciuto". Sono gli interrogativi che non troveranno risposta nemmeno nel mondo post Covid. Il futuro? Sarà "ripartire da dove tutto è cominciato", Inch'allah (se Dio Vuole).
Conclusioni
La recensione di Kufid si chiude con la consapevolezza che il racconto di Elia Moutamid, nato da premesse completamente diverse prima che il Covid irrompesse nelle nostre vite, non si limita a una semplice cronaca della pandemia, ma diventa una riflessione più ampia sul concetto di identità e integrazione. Il documentario – che avrebbe dovuto raccontare il rapporto tra l’uomo e la trasformazione urbana del territorio, in particolare nella terra d’origine del regista, il Marocco – è una specie di creatura ibrida che racconta la quotidianità dell’autore durante i mesi di lockdown. La narrazione si struttura come un dialogo tra il regista, che si pone una serie incessante di interrogativi, e un’entità malefica, Kufid.
Perché ci piace
- Un diario dalla pandemia, che diventa occasione di una riflessione più ampia: non un film sulla pandemia, ma un susseguirsi di interrogativi di tipo esistenziale.
- Una narrazione lucida ed equilibrata, capace di muoversi su più piani: dalla dimensione pragmatica e lineare del racconto di cronaca a quella più astratta e frammentaria del pensiero.
- L’idea di strutturare il flusso di coscienza come un dialogo con un’entità malefica che tutto sconquassa, Kufid.
Cosa non va
- Chi si aspetta un documentario tradizionale, potrebbe rimanere spiazzato da una narrazione più complessa e stratificata.