Il silenzio le si addice. Il silenzio la abita, e lei eccelle sia in quel che mostra che in quel che nasconde, in quel che dice come in quel che tace. È la fata dell'interiorità.
Le parole di Gilles Jacob, decano della critica francese, illustrano alla perfezione uno dei tratti distintivi del talento di Isabelle Huppert: la capacità di conferire significato alle ellissi. La sua recitazione, del resto, non è mai stata didascalica: i personaggi disegnati dall'attrice parigina in mezzo secolo di carriera sono abitati da una profondità che rifugge le convenzioni e gli stereotipi, o che al massimo li rovescia per farceli osservare sotto una nuova luce. Tanti attori riescono a trasmetterci l'emozione al centro di una specifica scena, ma Isabelle Huppert fa qualcosa di diverso: ci ricorda che un'emozione è una cosa complessa, che non sempre si può etichettare con una singola parola ma di solito si compone di una pluralità indefinibile, come una tavolozza su cui mescolare innumerevoli tinte mentre si cerca la sfumatura desiderata.
Guardare Isabelle Huppert sullo schermo significa in parte anche questo: naufragare in un mare di sfumature o, per tornare alla metafora di Gilles Jacob, tentare di riempire i silenzi in cui lei ci immerge. Talvolta con un quieto, malinconico struggimento: è il caso della timida Pomme, folgorata dal suo primo amore ne La merlettaia di Claude Goretta, del 1977. Talvolta, al contrario, con una durezza che non lascia scampo: un esempio su tutti, l'Erika Kohut de La pianista, il capolavoro di Michael Haneke tratto nel 2001 dal romanzo di Elfriede Jelinek, in cui la Huppert ci trascinava negli abissi - le ossessioni, le parafilie, l'autolesionismo - della sua inquieta protagonista. Si tratta forse dei due poli opposti nella sterminata galleria delle incarnazioni di Madame Huppert (oltre un centinaio di titoli solo per il cinema), nonché di due saggi complementari delle sue qualità come attrice.
Isabelle Huppert: da Elle a L'avenir, le 10 migliori performance dell'attrice francese
La diva chabroliana dei lati oscuri
Nata a Parigi il 16 marzo 1953, Isabelle Huppert si è distinta fin dai primi film appunto per l'abilità nell'interiorizzare i drammi, piccoli e grandi, a cui vanno incontro i suoi personaggi, per poi restituircene dei ritratti indelebili proprio in virtù di questo elemento: una contraddittorietà endemica che corrisponde, in fondo, alle moltitudini contenute negli esseri umani più interessanti. Tanti suoi ruoli risultano così fascinosi ed ipnotici perché sfidano noi spettatori, costringendoci a cimentarci con quell'ambiguità insondabile e, in molti casi, gravida di lati oscuri. E non è un caso, allora, se a consacrare una Isabelle Huppert appena venticinquenne fra le più dotate attrici della sua generazione è stato Claude Chabrol: un regista che dell'ambiguità e dei lati oscuri ha fatto l'asse portante del proprio cinema, e che in Isabelle ha trovato infatti la 'complice' ideale.
Dalla fanciulla sfrontata e amorale di Violette Nozière alla Marie Latour che, in Un affare di donne, pratica aborti clandestini nella Francia occupata dai tedeschi; dall'icona letteraria creata da Gustave Flaubert e riproposta nel 1991 in Madame Bovary all'imprevedibile Jeanne, che ne Il buio nella mente irretisce la domestica Sophie per poi condurla verso un'apoteosi di orrore; e poi ancora la seducente truffatrice Betty di Rien ne va plus, la subdola avvelenatrice Mika Muller di Grazie per la cioccolata e l'implacabile magistrata Jeanne Charmant-Killman de La commedia del potere. Basterebbero già i frutti del sodalizio Chabrol/Huppert a testimoniare una proverbiale tendenza nelle scelte professionali dell'attrice: dar vita a figure in qualche misura 'sinistre', e che però rifiutano di farsi incasellare nella semplice categoria dei villain, offrendoci più domande che risposte.
Claude Chabrol, nel buio della mente: i grandi film di un maestro del thriller
Da La pianista a Elle, una galleria di audaci antieroine
Ne La pianista - il suo ruolo più estremo, e in assoluto fra i più belli - questo connubio di contrasti deflagra in una performance che mette i brividi, per il suo naturalismo scevro da artifici e per la sofferenza divorante che emerge dall'atteggiamento freddo e feroce di Erika. Ma non servono scene madri, né c'è bisogno di istrionismi di sorta: il masochismo sessuale e sentimentale della donna trapela dal fuoco che divampa dietro gli occhi di ghiaccio della Huppert, dalla tensione repressa sotto una maschera di impassibilità. E se si riesce ad entrare in empatia con lei, se si prova a comprenderla, non si può non lasciarsi colpire al cuore dalla sua tormentata umanità. Un tormento che, in 8 donne e un mistero di François Ozon, Isabelle ci racconta nei tre minuti di voce e piano di Message personnel: un frammento di puro mélo incastonato all'interno di una deliziosa semi-parodia.
Irresistibile in quei rari film che le concedono di ammantarsi di levità e grazia, come In Another Country di Hong Sang-soo, o laddove si abbandona alla placida spontaneità della vita quotidiana (Le cose che verranno di Mia Hansen-Løve, Frankie di Ira Sachs), altrettanto spesso Isabelle Huppert ha declinato i drammi delle sue antieroine attraverso una lucidissima, affilata ironia; come quando, nel 2016, ha prestato il volto a Michèle Leblanc, che reagisce a uno stupro con vitalità audace e spregiudicata. Elle, thriller a tinte grottesche diretto da Paul Verhoeven, ha segnato in tal senso una punta di diamante nella carriera della Huppert: altera e sensuale, impulsiva e calcolatrice, benevola e spietata, talvolta nell'arco della medesima scena. Un caleidoscopio in grado di ricordarci, casomai ne avessimo avuto bisogno, cosa renda Isabelle Huppert una delle migliori attrici al mondo: perché un suo sguardo sa contenere moltitudini.