Recensione A corte do Norte (2008)

Botelho conferma le tradizioni del cinema portoghese di prediligere una costruzione di senso globale alla forza della narrazione, donandoci un'opera complessa e sfaccettata.

Inseguendo una storia

Non è affatto semplice approcciarsi al cinema di Joao Botelho.
Per scriverne non tagliando fuori nessuno degli aspetti che compongono il complesso mosaico della sua filmografia occorre pescare in tutti gli ambiti: dalla storia alla filosofia, dalla psicanalisi alla psicologia, dalla pittura alla musica.
I film di Botelho sono come un collage, che si disinteressa dell'utilizzo del mezzo cinema per il suo essere un veicolo narrativo, puntando piuttosto alla sua profonda forza comunicativa e poetica.
A questa tradizione non si sottrae di certo A corte do norte, La tenuta del nord, pellicola che difficilmente troverà un canale distributivo in Italia, per lo meno nelle sale, visto che conferma tutta la potenza poetico-espressiva di un regista che ha fatto della complessità della costruzione di senso un suo cavallo di battaglia.

Difficile sintetizzare in poche battute una trama che tende ad avvilupparsi sempre più con lo scorrere del tempo: tutto ruota intorno al mistero di Rosalina, enigmatica donna vissuta a Madeira nel 1860, sconvolta dalla presenza dell'imperatrice d'Austria-Ungheria Elisabetta nella sua piccola isola. Della morte di lei nulla è certo: suicidio? omicidio? incidente?
Più personaggi, collocati su più piani temporali, indagano su una morte misteriosa, che affascina senza un motivo preciso, per la sola aura che riveste la figura dell'antica baronessa.
Ma, come già accennato, Botelho non è interessato principalmente alla forza narrativa del mezzo cinema, quanto alla sua forza espressiva e filosofica. Il film ben presto rivela dunque una sua profonda anima policentrica. Al centro c'è la ricerca di una soluzione per un mistero apparentemente insolubile, che diventa pretesto per una ricerca di senso di fronte alla realtà. E' come se l'intero film fosse l'autore dell'indagine. Come se la pellicola in quanto tale, attraverso le proprie possibilità comunicative, si prendesse la briga di indagare su un mistero, selezionando immagini, personaggi, dialoghi, in funzione del proprio bisogno di rivelare il desiderio profondo dell'animo dell'uomo.

L'opera così risulta estremamente complessa e stratificata, per diventare in alcuni suoi passaggi, confusa e poco chiara. Per quanto ci si sforzi di seguire un senso generale delle immagini e dei dialoghi, c'è pur sempre un tentativo di fondo di raccontare una storia quale filo conduttore dell'impalcatura di senso che Bothelo costruisce. Non riuscire in più momenti ad avere una chiarezza d'insieme di questa storia penalizza anche il fluire di significato che l'autore cerca di trasmettere.
Accentua il disorientamento la scelta, etica ancor prima che estetica, del reiterarsi degli stessi attori in più personaggi diversi. Fra tutti, la vera musa ispiratrice di quest'opera, Ana Moreira, che si sobbarca l'onere e l'onore di dare volto e carne a tutti i protagonisti femminili che compaiono sulla scena.
Un film dai colori chiari e traslucidi, che diventano sfocati e opachi, da cartolina ottocentesca, nel suo prologo e nel suo epilogo, misurato, dalla composizione geometrica delle inquadrature e delle sequenze, rivelatore dei lunghi trascorsi del regista quale critico cinematografico.
Qualcuno lo definisce l'erede di Manoel de Oliveira, vero mattatore della scena cinematografica portoghese da più di cinquant'anni. Probabilmente un'esagerazione. Certo è che, come fonte di ispirazione, tracce del maestro centenario si scorgono anche in quest'opera imperfetta del suo conterraneo.