Nel 2013 con il documentario Il treno va a Mosca avevano già dimostrato un uso originale e illuminato del materiale di archivio, e oggi ne Il varco, Federico Ferrone e Michele Manzolini tornano a farlo con un ulteriore salto narrativo e una grande ambizione: costruire una storia di finzione a partire dagli archivi di Luce, Kinè e Home Movies - Archivio Nazionale del film di famiglia.
La vicenda è la campagna di Russia che nel 1941 portò l'Italia in guerra accanto ai nazisti, qui i due registi ce la raccontano attraverso gli occhi di un soldato italiano a bordo del treno che lo porterà sul fronte sovietico. Una narrazione in soggettiva affidata alla voce narrante del protagonista, un flusso di coscienza che segue le immagini di repertorio utilizzate dai due giovani autori con la creatività e il rispetto che li contraddistingue e che apre una nuova via all'uso dell'archivio al cinema, già in parte esplorata da Pietro Marcello anche nel suo più recente Martin Eden.
Il film in uscita il 10 ottobre e presentato nella sezione Sconfini alla scorsa Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, rompe i confini del genere e si impone come un'operazione singolare a metà tra finzione e istanza documentaristica, in cui i ricordi del protagonista e i fantasmi di ieri si sovrappongono a immagini di una guerra futura in quella stessa Ucraina che fu all'epoca teatro di una battaglia cruenta. Il varco è il risultato di due anni di ricerca tra gli archivi dell'Istituto Luce, almeno dieci ore di materiale, e i filmati di repertorio messi a disposizione dalle famiglie Franzini e Chierici, circa due ore.
"Sono immagini molto complesse da maneggiare, - ci ha raccontato a Venezia il produttore Claudio Giapponesi riferendosi al materiale privato - ed è importante stabilire un rapporto di fiducia con chi ha fatto quei film". Senza contare l'effetto normalizzatore che i materiali di famiglia hanno verso il fascismo rispetto a quelli ufficiali noti a tutti: "Permettono di guardare a quel periodo in maniera diversa, meno da libro di storia, restituiscono una quotidianità che toglie quell'aura di eccezionalità ai fatti".
Tra fiction e materiale d'archivio
Rispetto a Il treno va a Mosca, qui c'è un passo ulteriore: la dimensione da fiction, che insieme al realismo del materiale di archivio racconta una storia di finzione. Come siete riusciti a mantenere il giusto equilibrio tra questi due binari?
Federico Ferrone: Il film non nasce in maniera programmatica né narrativamente né a livello di temi, c'era ovviamente un interesse per la guerra, e il desiderio di parlare di fascismo e di seconda guerra mondiale ci ha portato alla scoperta di alcuni fondi d'archivio sulla campagna di Russia degli italiani; alcuni ben noti venivano dall'Istituto Luce, altri totalmente inediti appartenevano ai soldati. Si tratta di una storia collettiva che riguarda non solo l'Italia, ma tutta l'Europa, avevamo a disposizione delle immagini molto diverse fra loro che si potevano amalgamare, da qui il desiderio di un passaggio narrativo forte: staccarsi da una forma puramente documentaria e inventarne una verosimile e legata alle coordinate storiche. Abbiamo creato così un personaggio di finzione con una madre russa, un legame con la lingua che gli permette di entrare emotivamente in connessione con quei luoghi e quelle persone, e con un passato sporco da soldato in Africa durante la campagna di Etiopia; questo ci ha dato molta libertà nella costruzione di una storia in cui montaggio e scrittura sono avvenute quasi in contemporanea.
Siete partiti dai diari dei soldati?
F. F: I diari sono solo alcuni degli elementi su cui ci siamo poggiati per capire stati d'animo, luoghi, ambienti, sentimenti: tra quelle pagine c'è anche molta rabbia.
Michele Manzolini: Il punto di partenza dell'intera narrazione sono state le immagini che avevamo a disposizione, sia quelle amatoriali che quelle del Luce.
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Il legame con la contemporaneità
Alcune immagini ci portano nell'Ucraina di oggi, restituendoci frammenti di una guerra che si combatte in quegli stessi luoghi. Che ruolo ha in questa operazione il legame con il contemporaneo?
F. F.: Quella è stata la vera scommessa del film. Andandoci a documentare non abbiamo potuto non notare come i luoghi in cui furono inviati lo Csir (Corpo di spedizione italiano in Russia) prima e l'Armir (Armata Italiana in Russia) dopo, fossero gli stessi in cui oggi si consuma il conflitto tra Ucraina e Russa. Non c'era la volontà di fare un parallelo esplicito, ma ci sembrava importante sottolineare che laddove si è combattuto, le ferite non si rimarginano in automatico, e che non è casuale che la violenza e i conflitti rinascano proprio in quei luoghi. È un film fatto di fantasmi, il protagonista ha un passato, una moglie lasciata a casa e delle visioni, dei deliri, tra questi ci sono immagini del suo futuro, che poi è il nostro presente, il 2019, e ci ricordano come quei territori esistano ancora e siano teatro di scontri. Sono gli stessi in cui si combatté durante la prima guerra mondiale con esiti ugualmente catastrofici; è una riflessione fatta in fase di scrittura, ma che poi non abbiamo inserito nella stesura finale. Se c'è una lezione è che le guerre non finiscono, si ripetono e si ripercuotono sempre a distanza di decenni e in circostanze diverse.
M.M: Quelle immagini sono squarci verso l'oggi, rappresentano il futuro del protagonista e diventano parte del film.
Il vostro documentario precedente partiva da un personaggio reale in viaggio verso un sogno, qui il protagonista è un personaggio di finzione consapevole di andare invece verso un incubo.
M. M.: Volevamo evitare l'approccio realistico e documentaristico de Il treno va a Mosca, anche se molti elementi delle vite dei soldati filmati sono alla fine entrati in quella del nostro personaggio. L'idea era quella di procedere nella maniera più libera possibile verso le suggestioni che ci arrivavano dalle immagini, consapevoli però del valore storico del materiale che avevamo tra le mani.
Qual è il valore di quest'operazione in un'Italia che fa fatica a capire le lezioni del passato?
F F. Anche se siamo nati alla fine del '900, ci sentiamo registi di quel secolo e facciamo i conti con quel mondo. Sarebbe ipocrita e presuntuoso dire che vogliamo dare una lezione. La campagna di Russia è stata l'inizio della fine del fascismo e non a caso il nostro film si conclude prima della ritirata, poi comincia un'atra storia. Ci piaceva raccontare l'inizio della fine.