Se nel cinema quasi tutto è stato detto, visto, mostrato, riproposto e rivisto, i modus fruitivi sono lontani dall'essersi esauriti. Lo spettatore più attento e ricercato troverà sempre un modo per conoscere, scoprire o più semplicemente sanare il suo desiderio e la sua curiosità, dedicandosi alla riscoperta, alla rilettura o alla ricerca della differenza concentrandosi su modelli di rappresentazione altri, conscio comunque che la folgorazione, il capolavoro potrebbero rimanere una suggestione romantica e nostalgica. Se tale premessa ha legittimità, i festival del cinema hanno ancora una solidissima ragione di esistere che va ben oltre la dimensione produzione-consumo-premiazione.
Sotto questo profilo il Torino Film Festival festeggia i suoi ventitre anni di vita perseverando nel solco di una tradizione che tiene in vita quella magia evocativa e quel potere immaginifico e perché no, quella superiorità della proiezione in sala in lingua originale che il cinema continua a mantenere intatto anche a discapito di chi lo ha sempre connaturato come un linguaggio intrinsecamente privo di quella presunta aura tipica delle arti che lo precedono. D'altronde il mondo è indiscutibilmente pieno di gente che il cinema lo fa e di gente che il cinema lo vede, molti di questi amandolo visceralmente e organizzando le proprie giornate festivaliere intorno agli incastri delle proiezioni. Perché i film possono essere dannatamente brutti, come straordinariamente belli, non è questo a fare un festival, quanto l'identità di una rassegna, l'orientamento e la coerenza che la sottendono. Per questo e non solo, le scelte torinesi testimoniano da sempre una volontà di ricerca, di cultura e di archeologia del cinema, confermandosi una vera oasi per cinefili, lontana dal glamour e dalla ricerca dell'anteprima a tutti i costi.
Così, ecco le due gustosissime retrospettive su Walter Hill e Claude Chabrol troneggiare, oscurando un concorso che nessuno da queste parti ha mai pensato fosse il fulcro della rassegna. Ottimi titoli fuori concorso (su tutti l'ultimo splendido Il sole di Aleksandr Sokurov che ci aveva già affascinato a Berlino 2005, Election di Johnny To e la straordinaria Operetta tanuki goten di Seijun Suzuki, già amata anche questa, in quel di Cannes, come il Three Times di Hou Hsiao-Hsien), un bellissimo focus sul cinema filippino, centrato sull'opera di Lino Bocka (regista davvero sorprendente) e del suo erede Lav Diaz e tanti corti e documentari.
I Masters of Horror ancora e soprattutto, in quanto vero colpo di questa edizione e della sempre eccellente sezione Americana che contava anche lo struggente Sound Barrier di Amir Naderi e i documentari di Werner Herzog e Martin Scorsese. Presentati a Torino sette dei tredici mediometraggi della prima serie ideata da Mick Garris (regista anche dell'episodio più insoddisfacente a dire il vero) e sponsorizzati dalla tv via cavo Showtime. Grande richiamo per l'iniziativa che ha permesso al Festival presenze importanti (Dario Argento, John Landis, Joe Dante e Don Coscarelli) e proiezioni sold-out. Sette episodi nel complesso più che piacevoli con il picco raggiunto da un John Carpenter in gran spolvero e ai quali abbiamo dedicato un approfondimento.
Qualcosa ci è sfuggito per forza di cose. In alcuni casi si è trattato di perdite dolorose (penso a Loft di Kiyoshi Kurosawa, presente anche con il gustoso mediometraggio House of Bags, a Grizzly Man di Herzog, allo Scorsese versione documentarista nel suo No Direction Home: Bob Dylan), in atre occasioni un sano e spocchioso pregiudizio ci ha evitato titoli potenzialmente indigesti. Ci si aspettava di più da Dominion: A Prequel to the Exorcist, ovvero l'esorcismo prima dell'esorcista secondo Paul Schrader. Film dalla grottesca storia produttiva tipicamente hollywoodiana, (girato interamente da Schrader, rifiutato dalla produzione che lo ha fatto ridirigere a Renny Harlin con i risultati disastrosi che conosciamo) e dal risultato altalenante anche se probabilmente la mezza delusione è in parte il risultato delle grandi aspettative generatemi dagli amici di Nocturno. Occasione mancata anche per Cedric Kahn, autore di L'Avion onesto ed essenziale racconto per bambini, pericolosamente anonimo e per Walk the line di James Mangold sulla vita della celebre star del country Johnny Cash.
Ma entriamo più nello specifico:
Concorso: Quattordici i titoli selezionati nell'ambito del concorso lungometraggi con la chiara intenzione di inserire nazioni ed estetiche il più variegate possibili. Dal delirio fanta-thriller politico sgrammatico del franco-camerunense Les Saignantes all'italica Fiaba Nera di Alberto Mono, davvero pochi film con motivi di interesse per una selezione per forza di cose schiacciata da un lato dai grandi festival e dall'altro da quelli specialistici. Numerosa la rappresentanza di cinema asiatico che annovera ancora una volta una sciagurata opera hongkonghese, quel Mob Sister punto di non ritorno di un cinema gratuito e stilizzato costruito su grandi star annoiate. Paradossale per una cinematografia in grado di sfornare ancora oggi - ad un paio di decenni dal periodo d'oro - un buon numero di ottimi film ogni anno, al fianco di robusti film di genere che passano in ogni dove, tranne che ai più importante festival cinematografici italiani, dove tocca sorbirci opere così infime (in questa occasione siamo addirittura sotto il livello di Initial D presente all'ultimo festival di Venezia).
Fuori Concorso: Di grande livello qualitativo la selezione dei titoli fuori concorso, quasi tutti passati nel corso dell'ultimo anno a Berlino e Cannes e molti dei quali distribuiti a breve nel nostro paese. Ciò non toglie il gran interesse per il pubblico italiano di godersi opere dal grande spessore, nella versione originale ed in anteprima. Spicca in particolare la già citata ultima fatica di Sokurov: capitolo conclusivo sulla trilogia dedicata ai grandi personaggi della storia. Dopo Lenin e Hitler, il grande regista russo si dedica all'imperatore giapponese Hirohito con un ritratto dall'enorme potere evocativo, che gli sta creando enormi problemi in Giappone, dove la figura dell'imperatore è assolutamente sacra (come d'altronde il film di Sokurov mette in risalto senza la minima irreverenza). Cinema non per tutti i palati ma dall'elevatissima sedimentazione, come le tre storie del taiwanese Hou Hsiao-Hsien, che ci immerge ancora nella sua estetica elegante e rarefatta, dal fascino notevolissimo. Delude invece l'altro maestro del cinema taiwanese Tsai Ming-Liang, autore di un film, Il gusto dell'anguria dal manierismo esasperante, molto lontano dalle sue opere migliori, di cui appare rimasta solo l'esibizione del suo minimalismo rappresentativo in questo occasione mal coadiuvato da contenuti deboli e ridondanti. Altro mondo rappresentato e altro stile decisamente quello che caratterizza Election di Johnny To, uno dei migliori titoli del prolifico regista di Hong-Kong, che asciuga per l'occasione la narrazione da ogni orpello e tentazione glamour (sempre più presenti nelle sue ultime produzioni) per documentare con la massima potenza e rigore il mondo della mafia cinese. Assolutamente delirante, fino al ridicolo invece il film brasiliano di Ivan Cardoso improbabile storia di un lupo mannaro amazzone che turba non poco lo spensierato iter turistico-religioso di un gruppo di amici. Delude invece, come si è già accennato, l'aereoplano animistico del francese Cedric Kahn, mentre di gran livello la selezione giapponese con l'ultima opera dell'immortale Seijun Suzuki e del grande Kiyoshi Kurosawa.
Retrospettive: Tante e di notevole interesse le retrospettive secondo un percorso che ha abbinato cineasti dal riconosciuto valore e su cui c'è ben poco da aggiungere in questo contesto come Walter Hill (la non trascendentale ma continuativa collaborazione con la televisione, in gran spolvero proprio attualmente, grazie alla serie western Deadwood di cui è stato presentato l'interessante pilota) e Claude Chabrol, il cui profilo sarà completato l'anno prossimo, a ad autori interessantissimi come l'americano Lodge Kerrigan, la cui anteprima italiana del suo ultimo Keane è stata accompagnata dai suoi due precedenti lavori: Clean, Shaven e Claire Dolan. Tre soli film in più di dieci anni ma un'estetica ben definita che analizzeremo meglio attraverso un prossimo profilo dedicato al regista. Di enorme valore, a parere di chi vi scrive, la parentesi sul cinema filippino, grazie alla quale è stato possibile scoprire l'opera di Lino Bocka: regista fondamentale del cinema filippino, spesso citato nelle riviste di critica cinematografica europea ma i cui titoli conoscono solo un distribuzione saltuaria in Francia. Dal potentissimo esordio You Are Weighed in the Balance But Are Found Wanting (un'analisi spietata della società filippina che sorprende per l' accuratezza e la qualità della messa in scena) passando per il pasoliniano? Bona, fino ad arrivare al più celebre dei suoi film: Manila melodramma duro ed ineccepibile. Opere di grande sapienza registica e di notevole rilievo politico - specie se contestualizzate nel modo adeguato - che ci permettono di apprezzare un regista capace di coniugare al meglio la cultura popolare con un cinema di ampio respiro, nonostante le evidenti limitazioni produttive e che ha gettato un ponte di enorme importanza per il nuovo cinema filippino di cui è fiero ed importante rappresentante Lav Diaz, presente insieme ai suoi film a Torino, per tutta la durata del festival.