In Italia, per trent'anni e sotto i Borgia ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? L'orologio a cucù.
Basterebbe il famosissimo confronto fra l'Italia e la Svizzera, pronunciato da Orson Welles subito dopo essere sceso dalla Wiener Riesenrad, la ruota panoramica del Prater, a far meritare a Il terzo uomo un posto nella leggenda. Questo breve monologo, com'è noto, fu aggiunto al copione direttamente da Welles (ispirandosi, pare, a una frase del pittore americano Theodore Wores), e storicamente risulta piuttosto discutibile: all'epoca dei Borgia la Confederazione Elvetica era nel pieno della guerra con l'Impero asburgico, mentre l'orologio a cucù sembra essere originario del Sud della Germania. Ma in casi come questo, l'esattezza storica conta poco e nulla rispetto alla forza iconica di un breve monologo in grado di sintetizzare alla perfezione l'essenza di un film e di un personaggio.
Il terzo uomo, diretto dal regista inglese Carol Reed da una sceneggiatura dello scrittore Graham Greene (autore anche del libro omonimo pubblicato dopo l'uscita della pellicola), in fondo è imperniato su questa dicotomia: da una parte gli inganni e le menzogne che caratterizzano il suo intreccio poliziesco, dall'altra le spinose verità che scuotono di volta in volta il senso morale del protagonista, lo squattrinato romanziere americano Holly Martins, interpretato da Joseph Cotten. Frutto del sodalizio fra due dei massimi mogul del cinema classico, Alexander Korda e David O. Selznick, Il terzo uomo debuttava nei cinema britannici l'1 settembre 1949, riscuotendo un gigantesco successo in patria e vincendo, il 17 settembre, il Grand Prix (l'equivalente della Palma d'Oro) alla terza edizione del Festival di Cannes; il film sarebbe stato distribuito negli Stati Uniti solo cinque mesi più tardi, con undici minuti di tagli imposti da Selznick.
Mistero a Vienna
La penna di Greene, maestro della narrativa di spionaggio, sviluppa la trama de Il terzo uomo a partire da un primo elemento di mistero: la morte, avvenuta in circostanze non del tutto limpide, di Harry Lime, americano di stanza a Vienna e amico d'infanzia di Holly Martins, quest'ultimo appena arrivato nella capitale austriaca proprio su invito di Lime. Siamo nel secondo dopoguerra, e la Vienna dipinta da Carol Reed costituisce uno scenario di grande suggestione: una città-fantasma in cui le rovine del conflitto convivono con la decadente maestosità dell'antico splendore asburgico. È una delle chiavi dell'oscuro fascino del film: la dimensione quasi metafisica in cui sono collocati gli avvenimenti del racconto e le indagini di Martins, smarrito fra le vie e i monumenti di una città notturna e spettrale.
La scelta di Vienna come ambientazione della storia, del resto, non è casuale: dopo la sconfitta dell'esercito nazifascista la città è stata divisa in quattro settori, controllati rispettivamente da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica. Nel centro di Vienna, invece, convivono soldati provenienti da ciascuno dei quattro stati: una Babele in cui si mescolano autorità ed interessi spesso contrastanti. Questa capitale martoriata dalle bombe assume dunque i contorni di una no man's land in preda al mercato nero e in cui si aggirano loschi individui; ad accentuare il senso di estraneità e di spaesamento di Martins è poi il tedesco, lingua a lui sconosciuta e che rende ancor più difficile la sua ricerca della verità riguardo la dipartita - o forse l'assassinio? - dell'amico Harry e la presunta presenza, sul luogo del delitto, di un fantomatico "terzo uomo".
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L'uomo nell'ombra
È lui, Harry Lime, la presenza-assenza evocata fin dall'incipit del film: il personaggio attorno al quale è costruito il giallo ideato da Greene, e che ritorna nelle parole e nei ricordi della sua fidanzata, l'attrice Anna Schmidt (Alida Valli). Ma Lime è anche al centro dell'inchiesta condotta dalla polizia britannica e dal maggiore Calloway (Trevor Howard), che svelerà all'incredulo Holly un'altra faccia del suo vecchio amico. L'ambiguità, la doppiezza, i segreti inconfessabili in procinto di venire a galla: i temi canonici del cinema noir, declinati in una prospettiva che tiene conto della storia recente, sono rielaborati da Carol Reed e Graham Greene in un'opera che per altri versi, invece, si distanzia nettamente dal noir classico. E poco dopo la metà del film, le labili certezze dello spettatore saranno completamente ribaltate da un clamoroso colpo di scena che corrisponde alla comparsa del "terzo uomo" (a beneficio dei futuri spettatori, non vi sveliamo ulteriori dettagli).
L'ingresso del personaggio del titolo, a cui presta il volto un indimenticabile Orson Welles, è una sequenza a dir poco magistrale, tutta giocata sull'alternanza fra luce e oscurità, sulle inquadrature inclinate (il cosiddetto piano olandese, che Reed aveva ripreso proprio dai virtuosismi registici di Welles), sulle lugubri ombre proiettate dalle minute figure umane negli immensi spazi viennesi. Ne Il terzo uomo, infatti, la tradizionale grammatica cinematografica viene forzata più e più volte, fin quasi al punto di rottura; e la superba fotografia dell'australiano Robert Krasker, premiata con l'Oscar, disegna Vienna come il teatro di un incubo, fra riprese sghembe e grandangoli esasperati.
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Negli abissi della morale
Si tratta di una componente di quell'aura tenebrosa e fantasmatica che avvolge l'intero film di Carol Reed: un film in cui la detection poliziesca non è che il veicolo per una discesa negli abissi dell'etica. Una discesa metaforica, ma che si concretizza verso il finale con il celebre inseguimento nei sotterranei di Vienna: una caccia all'uomo dalla tensione lacerante, in cui i condotti fognari della capitale austriaca diventano il labirinto in cui si svolgerà un estremo, fatidico faccia a faccia. D'altronde Il terzo uomo, a suo modo, potrebbe essere considerato una sorta di noir post-apocalittico, in cui alle macerie dell'occupazione nazista e della Seconda Guerra Mondiale fa da compendio l'assenza di speranza degli esseri umani.
Lo sguardo 'forestiero' di Holly Martins si propone così come una bussola morale in un mondo in cui la morale ha perso ogni valore; un mondo dominato dai compromessi e da un bieco opportunismo, che trova una sintesi nel sorriso serafico e beffardo di Orson Welles. Gli unici brandelli di verità, allora, si possono rintracciare nei sentimenti: la cieca passione di Anna e il senso di lealtà di Martins. Non a caso l'ultima scena è dedicata a loro due: vicinissimi l'uno all'altra, eppure incapaci di proseguire insieme il proprio percorso.
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