Da una parte un West duro a morire. Un West fatto di paesaggi sconfinati, terre da coltivare, cavalli da montare, fango e uomini rozzi. Dall'altra un West contaminato dal progresso, attraversato da automobili, affascinato dalla civiltà e dalle buone maniere borghesi. Apriamo la nostra recensione de Il potere del cane parlando del contrasto perenne al centro di un western atipico. Tratto dall'omonimo romanzo di Thomas Savage, il nuovo film di Jane Campion (targato Netflix) è attraversato da questa tensione perenne, incarnata da due fratelli agli antipodi. Un duello psicologico logorante, che con il passare del tempo tramonta per fare spazio a una repressione intima sempre più evidente. Sarà stato questo urlo trattenuto in gola da un cowboy ad affascinare Campion, che torna a dirigere dodici anni dopo l'ultima volta.
Da sempre interessata alle voci inespresse, la regista neozelandese ha trovato ne Il potere del cane una storia di mascolinità messa in discussione, donne infelici e persone al confine tra il mondo di sempre e quello di domani. Tante strade tra le quali Il potere del cane, purtroppo, finisce per smarrirsi.
West lontano dal western
Montana. 1925. I fratelli Burbank gestiscono un ranch che rende bene. Quello che non ingrana è il rapporto tra George e Phil. Il primo ha abbracciato l'evoluzione che ha bussato alle porte del Far West: ha un vestiario curato, gestisce gli affari con gente altolocata e si innamora di una vedova con figlio problematico a carico. Il secondo è avvinghiato al West più sporco, becero e animalesco. Non si lava, ha modi bruschi, uno spirito solitario e vive in simbiosi con una natura da domare in modo selvaggio. Phil, che vive nell'eterno ricordo del suo mentore idealizzato (Bronco Henry), ha sviluppato un attaccamento morboso nei confronti di George, ed è per questo che l'arrivo della cognata e dello strambo nipote acquisito sarà un terremoto violentissimo. The Power of the Dog parte da queste premesse, ed è facile intuire quanto Jane Campion sia interessata ai contrasti. Quelli familiari, quelli emotivi e quelli esistenziali. Peccato che nessuno di questi spunti venga approfondito a dovere, perché tutto viene sfiorato senza toccare mai davvero le corde dei sentimenti. Lontano da un cinema viscerale, Il potere del cane risulta troppo freddo, concettuale, a volte persino pretestuoso nella ricerca affannosa del colpo a effetto. Non aiuta una scrittura dispersiva, che cambia di continuo il suo oggetto di interesse e guarda altrove appena qualcosa stava per essere messo a fuoco. Se è vero che il western è sempre stato un genere perfetto per un approccio quasi antropologico al cinema, Campion sembra fuggire da questo canone e rifiutare il genere stesso. Senza epica di frontiera e allergico alle dinamiche tipiche del western, Il potere del cane sembra quasi un thriller domestico (volutamente ripetitivo e per questo claustrofobico) in cui tanti drammi si tolgono spazio e nessun cuore marcio viene a galla.
Gli 80 migliori film da vedere su Netflix
Lezioni di banjo
Eppure gli ingredienti per un grande film c'erano tutti: il tanto atteso ritorno di una grande autrice, una storia dolente a cui dare forma e un attore talentuoso come Benedict Cumberbatch nei panni di un uomo complesso e inquietante. Ed è proprio l'attore inglese l'emblema della prima, grande delusione di questa Venezia 78. A prescindere da quello che secondo noi è un misscasting iniziale (l'attore non ha un volto abbastanza sporco e grezzo per risultare credibile nella parte), Cumberbach sembra un alieno che si aggira per il film. In parte è una sensazione voluta, ricercata da Campion, perché il suo Paul è un uomo ormai fuori dal suo tempo e dal suo spazio, incapace di relazionarsi agli altri e lontano da qualsiasi forma di sana socialità. Dall'altra, però, il protagonista è in difficoltà nel sintonizzarsi con il resto del cast, a volte alza troppo il volume e non permette mai al pubblico di entrare in empatia con un personaggio tragico come il suo. La colpa, come detto, è anche di una sceneggiatura confusionaria (infatti anche Kirsten Dunst ci è sembrata parecchio in difficoltà), in netto contrasto con una messa in scena di ottima fattura. Dal punto di vista estetico, infatti, Il potere del cane mostra il suo lato migliore. E lo fa soprattutto grazie a una fotografia capace di far parlare un paesaggio immacolato, in netto contrasto con il panorama umano incattivito. La vastità del Montana diventa quasi uno spettacolo sullo sfondo che tutti i personaggi del film possono solo ammirare da lontano, senza potersi immergere davvero in quella natura illibata, che ancora resiste all'industrializzazione che galoppa altrove. Notevole anche il lavoro svolto con il sonoro, con fischiettii, pettini accarezzati e strumenti musicali che raccontano tante anime in pena. Ed eccolo l'irrisolvibile contrasto al centro del film: quello tra la forma (elegante) e il contenuto (disordinato). Per questo, così come il suo tormentato Phil, Il potere del cane verrà ricordato come un grande inespresso.
Conclusioni
Nella recensione de Il potere del cane vi abbiamo raccontato la prima delusione di questa Mostra del Cinema di Venezia 2021. Jane Campion torna alla regia dopo dodici anni adattando l’omonimo romanzo di Thomas Savage, forse attratta da una storia di repressione, vendetta e vergogna. Tanti temi cari alla regista, ma purtroppo la sceneggiatura confusionaria finisce per annacquare le emozioni e perdere il filo del racconto. Non aiuta anche l’interpretazione fuori fuoco di un Benedict Cumberbatch stranamente in difficoltà. Il potere del cane risulta così un western atipico, elevato soltanto da una messa in scena di gran classe.
Perché ci piace
- La cura della messa in scena, impreziosita da una fotografia accuratissima.
- Il ruolo simbolico del paesaggio è molto significativo.
Cosa non va
- Difficilmente abbiamo visto (e vedremo) Benedict Cumberbatch così in difficoltà e fuori ruolo.
- La sceneggiatura è troppo dispersiva.
- Il film non coinvolge mai davvero, risultando respingente.