Il nome della rosa continua il suo cammino di quattro settimane su Rai 1 (e On Demand su RaiPlay) e con questa intervista al cast, cogliamo l'ooccasione per approfondire ulteriormente una produzione complessa e importante, che ha messo in campo lo sforzo congiunto di 11 Marzo Film e Palomar, ha saputo coinvolgere interpreti internazionali in una realtà totalmente italiana e mira a conquistare anche il pubblico estero. Intanto quello nostrano ha già dimostrato interesse per la serie Rai, con una prima puntata de Il nome della rosa arrivata al 27,4% di share e il protagonista star dei social, ma è naturale per una storia ispirata a un romanzo possente e popolare come quello di Umberto Eco, già adattato in un film nel 1986, ma ora forte di una trasposizione più corposa: 800 minuti totali in cui la complessità del romanzo originale può trovare il suo spazio ideale.
Lo conferma Eleonora Andreatta: "La dimensione seriale è adatta a raccogliere la ricchezza del romanzo di Eco, perché in 500 pagine non si racconta un semplice giallo, è un'enciclopedia di sapere." Quello da thriller è infatti solo il livello superficiale di un romanzo che affronta temi importanti quanto attuali ancora oggi, sapendo approfondire i personaggi che danno vita alla storia, per i quali è stato portato avanti un ottimo e ricco casting: John Turturro è Guglielmo da Baskerville, Damian Hardung è il novizio Adso da Melk, mentre Rupert Everett e Michael Emerson sono l'inquisitore Bernardo Gui e l'abbate Abbone da Fossanova. Accanto a loro Fabrizio Bentivoglio, Stefano Fresi, Greta Scarano e Roberto Herlitzka.
L'orgoglioso cast de Il nome della rosa
"Non ho visto il film originale" ha spiegato John Turturro in conferenza, "anche se adoro Sean Connery. Ma da ragazzino avevo una bambola di lui vestito da James Bond e ho pensato che non fosse il caso di vedere il suo lavoro su questo ruolo." Sul suo personaggio ha dichiarato che lo interessava "il suo modo di pensare come uomo, l'idea che la conoscenza sia una protezione contro il potere." Ma l'attore italo-americano si è anche dichiarato felice di aver accettato di prendere parte a Il nome della rosa, perché "è un mondo che ha elementi attuali ancora oggi. Fortunatamente o meno, a seconda di come la si vede." Un mondo ispirato a un romanzo che l'interprete di Guglielmo da Baskerville considera eccezionale: "è importante imparare da quello che fai mentre lo fai" ha aggiunto, parlando anche dell'esperienza con i colleghi italiani che hanno dato vita ai personaggi de Il nome della rosa a Cinecittà, consapevole della difficoltà di recitare in un'altra lingua. Fa riferimento in particolare al lavoro di Roberto Herlitzka: "Quando si recita in una lingua diversa è dura essere chiaro e comprensibile" ha spiegato "essere ironici è impossibile!"
E Roberto Herlitzka ci riusciva con gran disinvoltura, risultando credibile al punto che nessuno credeva che non conoscesse l'inglese. "Mi è piaciuto recitare in inglese perché mi ha fatto sentire bravissimo" ha raccontato Herlitzka, che però ha un cruccio: "non capivo una parola quando parlavano loro e non ho potuto scambiare quattro chiacchiere con Turturro." Una sfida che ha coinvolto tutto il cast con diversi livelli di difficoltà, ma che tutti hanno accolto in modo positivo e come stimolo. "Non capita spesso a un attore di affrontare qualcosa che dà la possibilità di superare i propri limiti" ha infatti raccontato Fabrizio Bentivoglio che dà vita a Remigio sottolineando l'importanza del lavoro di squadra. Gli ha fatto eco Stefano Fresi che interpreta il monaco deforme Salvatore: "apprezzo l'intelligenza dei produttori di non confinare un attore nel ruolo che sembra più adatto alle sue corde" e così è stato in questo caso, per un personaggio "al limite tra uomo e animale" e soprattutto in contesto che è stato gioia e stupore continuo: "ho lavorato con persone per le quali di solito esco di casa per andare a vedere i loro film" ha dichiarato con entusiasmo. Greta Scarano ha invece parlato di "una esperienza totalizzante", in un contesto di grandissima professionalità, che ha elogiato con convinzione, e per raccontare una storia che affronta temi che fanno discutere, di uguaglianza e diritti.
Adattare un classico
La serie tratta da Umberto Eco rientra nel disegno di internazionalizzazione della Rai, che prevede "progetti ambiziosi che nascono dal meglio del patrimonio culturale italiano". Naturale, in tal senso, la scelta di un romanzo amato da pubblico e critica, la cui ricchezza si adatta alla dimensione seriale scelta per l'adattamento. Prodotto di "una macchina seriale adulta, cresciuta insieme al proprio pubblico che si è abituato alla qualità e questa ci chiede", come spiega Andreatta. Completa il concetto Teresa De Santis: "Umberto Eco è stato un punto di partenza per la Rai e ora ne è punto di arrivo e rilancio." Ma si è trattato di un adattamento complesso oltre che ambizioso, un'idea che partì dallo sceneggiatore Andrea Porporati e subito sostenuto da Matteo Levi di 11 Marzo Film, che si rivolse a Carlo Degli Esposti e Palomar, consapevole dello sforzo necessario a portarlo a termine. È proprio quest'ultimo a raccontare il suo ricordo di Eco ai tempi dell'Università di Bologna e di come fosse ripartito dallo stesso libro letto all'epoca della sua uscita.
L'autore Andrea Porporati ci ha tenuto però a sottolineare come il suo sia stato solo un lavoro iniziale, perché importante è stato l'apporto del regista Battiato, così come di Turturro. Lo stesso attore italo americano ha spiegato che teneva a "inserire quanto più Eco possibile nel progetto, quante più parti possibili del libro", soprattutto lavorando sul modo di pensare del suo personaggio, sugli elementi filosofici e scientifici che sono parte di Guglielmo. Battiato si è soffermato sugli inevitabili limiti del film, "molto forte e di un regista che conosco e stimo, ma costretto a raccontare la storia in due ore. Il che l'ha costretto a concentrarsi sulla trama thriller". Quello della serie Rai è un approccio diverso, sia perché sono passati trent'anni da quel primo adattamento, sia perché "abbiamo avuto otto ore e spazio narrativo per sviluppare diversamente la storia." Il riferimento è sempre stato il romanzo di Eco, ovviamente, come per esempio nella costruzione degli ambienti. "Nella costruzione della biblioteca, per esempio" ha spiegato Battiato, "abbiamo cercato di essere fedelissimi alle descrizioni di Eco, mentre nell'Abbazia ci siamo presi qualche libertà nel rappresentarla un po' più magica. Un gotico meno primitivo e aspro."
Espandere il mito
D'altra parte il regista non considera il Medioevo come l'epoca buia che tanti descrivono, almeno non nello spirito delle persone. "I costumi erano coloratissimi, anche quelli dei contadini, ed è frustrante dovendo fare un film con monaci vestiti di nero. Ma dove ho potuto, ho inserito elementi di colore e illuminazione astratta. Molti pittori, Caravaggio incluso, non si fanno molte domande sulle fonti di luce, ma le mettono dove è bello che siano, per illuminare un volto o dettagli importanti." Ma le otto ore della serie hanno permesso anche alcune importanti aggiunte dal punto di vista narrativo, aggiungendo alcune porzioni di storia, le più criticate dopo le prime puntate mandate in onda (quelle che hanno destato qualche perplessità anche a noi, come potete leggere nella nostra recensione de Il nome della rosa). Gli autori raccontano come Eco fosse al corrente della loro intenzione di affrontare l'aspetto dell'eresia, lo stesso Battiato racconta come "Porporati mi mostrò una lettera mandata da Umberto Eco in cui si raccomandava di non trattare male i Dolciniani", perché voleva che fosse affrontato andando nella giusta direzione.
Un adattamento, quindi, ambizioso, che dopo la prima mondiale di Rai 1 inizierà un giro del mondo, dall'Inghilterra con la programmazione sulla BBC a Stati Uniti e Canada, America Latina e tanti altri paesi che hanno già acquistato la serie.