Recensione Fahrenheit 9/11 (2004)

Dopo la Palma d'Oro, le polemiche, le accuse "preventive", e tutto il bailamme mediatico che ne è conseguito, il film di Moore approda sui nostri schermi. Si tratta di vero cinema? La risposta è affermativa: cinema importante, da vedere.

Il film più 'caldo' dell'estate

Dopo il clamore suscitato dalla Palma d'Oro a Cannes, le polemiche, le accuse "preventive", e tutto il bailamme di cui il suo autore è stato (prevedibilmente) fatto oggetto, il nuovo documentario di Michael Moore sbarca finalmente sui nostri schermi, preparandosi a suscitare altrettante discussioni e prese di posizione destinate (per forza di cose) a spingersi anche al di là dei limiti del semplice medium cinematografico. Ma è da dire che, per analizzare in modo corretto un film del genere, è bene fare un passo indietro, allontanarsi da tutte le considerazioni non pertinenti all'oggetto-film, e porsi innanzitutto una domanda: è vero cinema, quello di Michael Moore? La risposta, a parere di chi scrive, è assolutamente affermativa, e il fatto di appartenere a un genere bistrattato come quello del documentario, non toglie all'opera del regista statunitense la forza di affabulazione, la capacità di suscitare emozioni, e l'urgenza di far riflettere, che da sempre sono proprie della Settima Arte.

Meno coinvolgente e immediato, e in un certo senso più squilibrato, del suo predecessore (il dirompente Bowling a Columbine), questo Fahrenheit 9/11 scopre subito le sue carte, dichiara esplicitamente i suoi intenti, che porterà avanti, senza deviazioni, per tutte le sue oltre due ore di durata: è George W. Bush il bersaglio, il cuore e l'indiscussa star del film di Moore, è in sua funzione che quest'opera esiste ed è lui il centro (ed il motivo principale) della ricostruzione documentaristica operata dal regista. Il film inizia denunciando le irregolarità e i brogli elettorali che hanno portato, nel 2000, all'insediamento di Bush alla Casa Bianca, per poi fare un passo indietro ed analizzare, minuziosamente e con dovizia di particolari, la vita economica e i rapporti d'affari (più o meno diretti, più o meno volutamente occultati) della famiglia dell'attuale presidente con un'altra potente famiglia, ovvero quella saudita dei Bin Laden.

Il rigore della ricostruzione di Moore (fatta di spezzoni di documenti scritti e filmati, alternati ad interviste a personaggi che furono, a vario titolo, coinvolti nelle vicende raccontate), è mescolato e legato indissolubilmente a una feroce ironia, a una vena dissacratoria (qui più presente rispetto al film precedente) che conferisce ai fatti, e al loro protagonista, una coloritura di grottesco che fa risaltare ancor più la drammaticità della loro natura. Lo stesso Moore "si fa da parte", sceglie di apparire poco all'interno del film, limitandosi a fare da voce narrante (malamente resa, in italiano, da un doppiaggio assolutamente non adeguato) e lasciando la scena al suo bersaglio/protagonista/antagonista, vero fulcro motore del film.

Moore porta avanti la sua ricostruzione con vigore e precisione filologica, spaziando dagli attentati alle Torri (da apprezzare la scelta, a questo proposito, di non mostrare le sequenze degli attacchi, limitandosi a far sentire i suoni sullo schermo nero: come a sottolineare l'inutilità di riproporre immagini già viste, fagocitate, interiorizzate e quindi, in ultima analisi, inoffensive), all'incredibile scelta di favorire la fuoriuscita dal paese dei parenti di Bin Laden all'indomani degli attacchi, per continuare con l'istituzione del Patriot Act, con gli effetti della tragedia sull'economia, l'invasione dell'Afghanistan e infine l'attacco all'Irak. Solo nelle sequenze relative al conflitto irakeno la vena grottesca del regista fa un passo indietro, con le interviste ai soldati e ai loro familiari e soprattutto la scelta di mostrare la morte e le sofferenze nei minimi dettagli: una scelta discutibile (specie quando Moore indugia sul dolore della madre di un marine che ha appena perso suo figlio), ma che comunque il regista subordina alla sua rigorosa, "militante" idea di ricostruzione documentaristica. E il finale tentativo di "arruolamento" dei figli dei parlamentari nei marines, speculare a quello compiuto dai militari stessi tra i figli del proletariato statunitense, è una provocazione che coglie nel segno e dimostra, al di là di ogni dubbio, la sincerità degli intenti di base del film.

Un film meno equilibrato del precedente, quindi, forse a tratti un po' verboso e viziato da un'eccessiva lunghezza, ma allo stesso tempo forte, rigoroso e assolutamente necessario per approdare a una visione complessiva di un periodo storico complesso (e in pieno corso) qual è quello che stiamo vivendo. Un film, innanzitutto, che ribadisce la dignità e la necessità di un genere quale il documentario, incarnato qui da un regista coraggioso che sa come usare i mezzi che ha a disposizione per costruire autentico cinema.
E si spera che i critici "preventivi", per una volta, facciano un passo indietro e scelgano di vederlo, se non altro per tener fede a un concetto semplice (ma troppo spesso dimenticato) per cui un'opera d'arte, per essere giudicata, dev'essere innanzitutto fruita.

Movieplayer.it

3.0/5