Il disperato canto del regista senza voce
Per un periodo durato meno di quindici anni, Kim Ki-Duk è stato uno dei prolifici e talentuosi registi non solo del cinema coreano, ma di tutto il circuito festivaliero internazionale. Le sue opere - Ferro 3 - La casa vuota, Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, La samaritana, L'isola, Bad Guy giusto per citarne alcune - sono state distribuite ed apprezzate in tutto il mondo e il viso pulito e fanciullesco di quel regista dalle poche parole (in sala come fuori) e dalla testa sempre coperta da un fedele cappellino con visiera è stato immortalato da innumerevoli fotografi.
L'uomo che invece ci troviamo davanti qui a Cannes poco prima che cominci la proiezione di questo Arirang, è un uomo visibilmente cambiato, non solo nell'aspetto (invecchiato, barba e capelli arruffati, abbigliamento certamente non in tono con il glamour cannense) ma soprattutto nell'animo, un uomo distrutto da un periodo di inattività lungo tre anni a causa di una sorta di "blocco del regista".
La domanda che tutti si pongono è il perché di questo lungo periodo di assenza dai set, d'altronde Kim Ki-Duk ci aveva abituato a fare un film dopo l'altro, senza interrompersi praticamente mai. La risposta la cerca in primis l'autore che da tre anni vive in una sorta di autoreclusione in una baita diroccata in mezzo alla neve, in cui passa il tempo ingegnandosi in ogni modo dalla cucina alla realizzazione di una macchinetta per l'espresso e nel frattempo si filma "perché se è vero che non riesce a fare film, non c'è altra cosa che gli può dare la felicità".
E' un Kim Ki-Duk terribilmente coraggioso: spinto da uno scopo praticamente terapeutico si mette in gioco completamente e ci mostra senza freni la fragile condizione (soprattutto psicologica) in cui si trova. Canta a squarciagola la canzone che dà il titolo al film, racconta le cose che più gli mancano del suo lavoro, esprime tutto il suo senso di colpa nell'aver deluso i tanti fan che avevano creduto in lui, arriva perfino ad autopsicanalizzarsi facendosi domande e dandosi risposte che sfiorano quasi la schizofrenia.
E' difficile capire quanto faccia sul serio e quanto invece voglia furbescamente veicolare agli spettatori, anche perché tutto il film è prima di tutto molto autoironico e autocritico. Sarà vero che questo blocco gli è stato causato da un incidente sfiorato sul set dell'ultimo film, Dream del 2008, in cui un'attrice stava quasi perdendo la vita? O dipenderà dal "tradimento" di alcuni suoi fidi collaboratori che l'hanno abbandonato nel momento più difficile della carriera e si sono trasferiti presso alcune major? O forse la crisi è semplicemente una crisi artistica, visto che tutte le opere degli ultimi avevano dimostrato un significativo calo rispetto agli esordi?
Probabilmente sono risposte che non riceveremo mai e in fondo poco importa, quello che è certo è che nel finale del film il nostro regista/protagonista sembra riuscire a fare i conti con il passato e i suoi "invisibili" nemici: nemici che, insieme a sé stesso, "uccide" idealmente fuori campo in un finale volutamente ridicolo nella sua realizzazione ma significativo dal punto di vista metaforico e catartico. Che il regista che conoscevamo sia realmente tornato? Arirang non ci dà una risposta in questo senso, al massimo ci lascia con un briciolo di speranza, ma anche con tanta tristezza.
Movieplayer.it
3.0/5