Il codice del Babbuino: la periferia romana come il selvaggio west

Un cinema indie che fa di necessità virtù. Il terzo lungometraggio di Davide Alfonsi e Denis Malagnino è una straordinaria conferma di talento e originalità. Nel nome di una totale libertà creativa.

Mai la periferia romana fu più nera, spietata, sporca, cattiva e senza possibilità di riscatto. Redenzione zero. È tutto spaventosamente aderente alla realtà, in un luogo non luogo, nella terra di nessuno dove si mescolano western metropolitano, campi rom, le insegne luminose delle sale slot e loschi figuri a metà tra Al Pacino e memorie tarantiniane.
Un'opera aristotelica dominata dall'ossessione dell'unità di tempo e luogo: l'azione si svolge infatti in un'unica notte, dal tramonto all'alba, a bordo di una scassatissima Citroen tra i casermoni della Tiburtina romana, dove il giovane Tiberio (Tiberio Suma) e l'amico Denis (Denis Malagnino) vagheranno in compagnia di un sarcastico e luciferino boss di quartiere, il Tibetano (Stefano Miconi Proietti), nel tentativo di vendicare lo stupro della ragazza di Tiberio. E se pure l'atmosfera potrà evocarvi temi e storie già sentite altrove, lo stesso non potrà dirsi per stile e linguaggio, lontani dai cliché sfornati da un presunto redivivo cinema delle periferie. Il codice del babbuino è un film a quattro mani, scritto e diretto da Davide Alfonsi e Denis Malagnino, entrambi del collettivo Amanda Flor, oggi diventato un'associazione culturale, la Donkey's Movies.

Il codice del babbuino: una scena del film
Il codice del babbuino: una scena del film

Veterani del cinema indie, per usare un ossimoro, questa è la loro terza fatica dopo La rieducazione presentata alla Settimana della Critica veneziana nel 2006 e Ad ogni costo del 2010, lavori anche quelli di "artigianato", frutto degli sforzi e della creatività collettiva. "Il nostro è un cinema grezzo", raccontano i due registi: "nei nostri film, anche per mere e banali esigenze di produzione, non c'è nulla di patinato o costruito a tavolino, è tutto autentico e istantaneo, per noi contano le storie, i personaggi borderline che raccontiamo e il contesto sociale in cui li facciamo muovere, nient'altro". Come succede anche ne Il codice del Babbuino, che dichiara il suo habitat sin dal titolo: "Allude" - precisa Alfonsi - "alla strategia adottata da alcuni animali per punire i più deboli e rimanda all'area semantica della giungla e della bestialità".

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Di necessità virtù

Il codice del babbuino: un momento del film
Il codice del babbuino: un momento del film

Un cinema no budget, costretto a evirazioni continue, tagli e riadattamenti. La sceneggiatura, pensata per un film che inizialmente si sarebbe dovuto strutturare su tre filoni narrativi e non su un'unica storia come poi è stato deciso, risale infatti al 2012: "L'idea nasce da un fatto di cronaca nera, uno stupro, avvenuto a Guidonia dieci anni fa", spiega uno dei due registi alla presentazione romana del film. "Ci colpì soprattutto la reazione della gente: una vera e propria sollevazione popolare con ronde a caccia dello straniero, in cerca di una vendetta privata. Non mi sembra che questo tema sia passato di moda, basti pensare ai recenti fatti di Macerata, l'idea dominante è che si possa privatizzare la giustizia. Siamo partiti da questo assunto per realizzare il nostro piccolo film lavorando con mezzi di fortuna. La povertà è una castrazione, ma spesso ci ha dato delle soluzioni stilistiche come ad esempio l'uso del fuori campo per gli eventi più tragici o la necessità di ambientare il film tutto dentro una macchina; non ci siamo mai fatti problemi a usare quei pochi mezzi a disposizione".
Un cinema che deve fare di necessità virtù e che diventa coraggiosamente avanguardista e sperimentatore nell'approccio stilistico: "Dovevamo dare il massimo con quello che avevamo" - ricorda Marco Pocetta, che ha curato fotografia e montaggio -, "ci siamo dovuti arrangiare ad esempio con l'illuminazione che ci dava il comune".

Il codice del babbuino: un'immagine del film
Il codice del babbuino: un'immagine del film

E anche la scelta della periferia risponde a un'esigenza di ordine pratico: "Giriamo nei luoghi in cui ci troviamo, ma non ci sentiamo di appartenere a nessuna scuola, seguiamo solo le storie che ci piace fare; abbiamo anche scritto delle sceneggiature fantasy che però per motivi di budget non siamo mai riusciti a realizzare".
Un film collettivo dove anche il montaggio è stata un'operazione partecipata da tutti: "Montavamo quasi subito dopo le riprese e ci lavoravamo tutti insieme" - continua il direttore della fotografia - "abbiamo dovuto tagliare alcune scene, in altri casi siamo stati invece costretti a implementare e adattare il girato seguendo movimenti di macchina più sporchi o un audio ballerino, che in alcuni punti si alza improvvisamente svegliando lo spettatore dal torpore della macchina in movimento. Abbiamo dovuto alternare picchi e andamenti più lenti".

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Cinema del reale

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Il codice del Babbuino è una di quelle opere che si guadagna un fotogramma dopo l'altro il privilegio della genuinità e della naturalezza, gli si crede dalla prima all'ultima inquadratura nonostante la povertà di mezzi e il coinvolgimento, in alcuni casi, di attori alla loro prima esperienza sul set, come succede per Tiberio Suma, che nella vita fa l'infermiere e che nel film ha messo tutto se stesso, le proprie incertezze e timori, realizzando un sogno, quello del cinema, che gli appartiene sin da quando era bambino: "All'inizio è stato tutto molto difficile, non ero abituato a stare davanti a una telecamera: tanti silenzi e insicurezze, poi scena dopo scena mi sono sciolto. Perché il cinema è il mio posto sicuro, vedo film di tutti i tipi da quando sono piccolo, rivela Suma. Dentro Tiberio c'è tanto di me stesso, per interpretarlo mi sono chiesto come avrei reagito al posto del protagonista, un ragazzo senza cultura e senza soldi; Tiberio sono io di fronte a un'esperienza traumatica come quella di uno stupro, senza però l'aggravante razziale. Dopo il panico iniziale il film ha preso corpo da solo e sembrava ci conoscessimo tutti da una vita, quando staccavo da lavoro per andare sul set a girare era come se stessi continuando a vivere la mia giornata, ma in un trauma".

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Tanta improvvisazione, molte modifiche alla sceneggiatura nel corso delle riprese, un lavorio costante di cesello e adattamento per un cinema reale più che realista, in cui la verità dura e pura passa anche dalla riflessione sull'Italia contemporanea: "Abbiamo la fortuna o sfortuna di vivere a Guidonia che è un non luogo, ma nello stesso tempo è molto paradigmatica di ciò che è il nostro paese oggi. Ciò che si vede nel film è la realtà, una volta quella parte di Tiburtina era il polo industriale di Roma, oggi fa paura, si vedono solo prostitute e biscazzieri, c'è una totale assenza del controllo del territorio. Non ci siamo inventati nulla".