Eccola aprirsi dinnanzi allo schermo: è una pista da corsa tortuosa, mai lineare, fatta di due corsie ben distinte. Da una parte sfreccia veloce Alex Schwazer; dall'altra, silente e angosciante, l'ombra del doping. È una gara, la loro, compiuta lungo direzioni opposte che non dovrebbero incontrarsi mai. Non è una staffetta, non è una sfida a ostacoli. Quella che l'atleta è chiamato ad affrontare è una corsa in solitaria, una marcia sviluppata a un ritmo sostenuto, con la quale allontanare e distanziare sempre più, giro dopo giro, quella mano pronto ad afferrarlo, sedurlo, innestargli il gusto della vittoria con il minimo sforzo.
Alex quella corsia è riuscito a tenersela tutta per sé, fino a sancire con un oro olimpico a Pechino 2008 quel suo allenamento certosino, impegnativo. Passo dopo passo, le sue gambe erano parti di un motore che giravano veloci. Piedi e cuore erano collegati da battiti costanti in una marcia trionfale destinata a bagnarsi di lacrime, rimorsi, cadute e risalite. Come sottolineeremo in questa recensione de Il caso Alex Schwazer, disponibile su Netflix, quella perfetta sincronia improvvisamente si blocca. Il ritmo si perde nello spazio dello stress, di un interesse mediatico che soffoca l'atleta, indebolendogli legamenti, arterie, battiti cardiaci e pensieri positivi. Tutto avvolge Schwazer in una nuvola nera, fino a fargli perdere l'orientamento e spostarlo verso quella corsia a lui interdetta: quella del doping.
E così, da realtà distinti, lontane, quella di Schwazer e dell'epo diventano un tutt'uno. Da quel giorno di agosto del 2012, la corsia si fa unica: adesso il campione olimpico deve imparare a sfidare lo spettro del doping, deve conoscerlo, mettersi sulla sua scia per sfidarlo, combatterlo, anche a costo di cadere, inciampare, rinascere. Tra sospensioni giuste e non, manipolazioni e test manomessi, la storia di Alex Schwazer si tinge di thriller, scarnificando ogni lembo di opera fiabesca. Il lieto fine di un uomo che si sacrifica al dio dello sport, diventa materiale perfetto da trattare sul piccolo schermo. Talmente incredibile da risultare figlio di una mente fantasiosa, Il caso Alex Schwazer si scinde in quattro parti, tracciando con attenzione e dovizia di dettagli ogni tassello di un mosaico doloroso sulla caduta di un atleta.
Il caso Alex Schwazer: la trama
Gli amanti dello sport certi eventi se li ricordano molto bene, e quello che ha visto protagonista il marciatore olimpico Alex Schwazer è una memoria che fatica a cancellarsi dalla mente. È il 2012 quando viene diramata la notizia che vuole Schwazer positivo al doping. Sorprendendo tutti, lo stesso atleta indice una conferenza stampa a Bolzano dove conferma quanto trapelato, assumendosi ogni responsabilità e giudicandosi colpevole. Ne consegue una squalifica dalle competizioni di quattro anni, che per un atleta è un tempo infinito. Ma non tutto viene per nuocere, e così Schwazer si affida alle mani di Sandro Donati, allenatore attivo nella lotta contro il doping. Dopo un periodo di depressione, Schwazer si rimette in sesto per partecipare più forte di prima alle Olimpiadi di Rio. Se non fosse che poco prima dell'iscrizione alle gare, risulterà nuovamente positivo. Fermo nella sua innocenza, il campione inizierà una battaglia legale con Donati, in un'indagine che colpirà sia la WADA che la Federazione internazionale di atletica leggera. Il giudice Pelino lo dichiarerà innocente, confermando il sospetto di manomissione delle sue urine da parte della WADA per allontanarlo dalle gare. Ciononostante, agli occhi delle federazioni Schwazer rimane colpevole, e per questo sospeso dalle competizioni fino al 2024.
I 20 migliori documentari su Netflix da vedere assolutamente
Marciare in luoghi sconosciuti
È un perfetto meccanismo a incastro l'opera documentaristica realizzata da Massimo Cappello. Il regista e creatore affonda a piene mani nel bacino nozionistico di una storia quasi irreale, riuscendo nel non facile tentativo di restituire ogni colpo di scena senza indebolirne quella portata angosciante e sconcertante, ai limiti del racconto giallo. Che il documentario voglia informare e puntare tutto sulla figura di Schwazer è reso esplicito sin dal titolo; in effetti ogni puntata pone in primo piano la figura del marciatore e del proprio allenatore, senza però scadere in un'agiografia petulante.
Certo, i primi piani sull'atleta, e i dettagli sui suoi occhi sembrano dirigere l'intera produzione fuori strada, deviandola verso sentieri battuti da falsa retorica. Con attenzione e ottima manualità, il regista riesce a riprendere però il controllo sul volante, ristabilendo la propria opera sulla giusta rotta. Così facendo, all'interno di questo puzzle colorato da un oro mancato ai giochi olimpici, e il nero di un'ombra pronta a inglobare, fino ad annullare, il nome dell'atleta, Cappello aggiunge un'ulteriore sfumatura, alla propria opera: quella del complotto pronto a soffocare la realtà dei fatti, insabbiandoli sotto manti stratificati di ostruzionismo e negazionismo.
Dopo anni di indagini e rivelazioni, notizie e comunicati stampa, pensavamo di sapere tutto del caso Alex Schwazer. Cappello ha dimostrato in soli quattro episodi quanto ci sbagliavamo.
Racconti super partes di rivelazioni stupefacenti
Prende e aggiunge, toglie e stupisce il regista con il suo Il Caso Alex Schwazer. Perseguendo una sentita onestà di racconto, Cappello coinvolge anche i rappresentanti della WADA (Agenzia mondiale antidoping) e della Federazione internazionale di atletica leggera (ree di aver manipolato i test delle urine di Schwazer per allontanarlo dalle competizioni), così da stipulare un'indagine equilibrata, obiettiva, e super partes. Certo, sebbene entrambe le parti si trovino a raccontarsi dinnanzi a una macchina da presa, il minutaggio destinato alle forze opposte dell'uragano Schwazer si riduce drasticamente se confrontato con quello degli amici, colleghi e sostenitori dell'atleta. Ciononostante, vige nell'opera un certo equilibrio nella forza che lascia agli stessi spettatori la possibilità di farsi un'idea personale circa quanto rivelato loro; un giudizio destinato a confermare, o a ribaltare completamente, l'immagine che i media avevano costruito su Schwazer dopo sospensioni e ritorni, chiamate in aule e ricorsi.
15 migliori film sullo sport che ogni sportivo dovrebbe vedere
Il laboratorio dello sport
C'è un qualcosa che affascina e attira lo sguardo dello spettatore nell'impianto cromatico scelto per immortalare ogni singolo testimone chiamato in causa in questo caso Alex Schwazer. Seduto davanti alla macchina da presa, chiunque accetti di dare la propria versione della storia è circondato da una fotografia fredda, gelata, quasi sterile, come quella di una sala operatoria. Nonostante la profondità dei racconti, e l'angoscia che molti aneddoti portano con sé, la sensazione generale che investe lo spettatore è dunque quella di ritrovarsi dinnanzi a cavie da laboratorio, provette fattesi esseri umani da testare, manipolare, ribaltare dall'interno, per modificarne i valori e distruggere i risultati sperati.
Non è un atto di santificazione Il caso Alex Schwazer; la docu-serie firmata Netflix è una semplice corsa in quattro tappe dove a ogni passaggio nuove rivelazioni vengono aggiunte, nuove prove vengono confutate, mentre l'ingiustizia avanza, e il nome di Schwazer, sebbene solo a un livello seriale e non agonistico, viene ristabilito.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione de Il caso Alex Schwarzer sottolineando come il regista e ideatore Massimo Cappello sia stato capace di racchiudere in quattro episodi una storia che pare essere uscita dalla mente di un autore di libri gialli. Caduta e (tentata) rinascita dell'atleta azzurro riprendono vita grazie a una narrazione obiettiva e super partes, volta a svelare misteri e risvolti prima tenuti nascosti.
Perché ci piace
- La gestione di un racconto così intricato come quello di Alex Schwarzer.
- Il tentativo di narrare ogni evento dando a tutti la possibilità di parola.
- La fotografia glaciale che fa di ogni spazio un'aula di laboratorio.
Cosa non va
- Il minutaggio limitato destinato ai rappresentati della WADA.
- L'indugiare sui dettagli degli occhi e sul primo piano di Schwarzer, cosa che porta la narrazione verso una certa retorica di racconto e pietismo.