Quando parliamo di "esperienza immersiva al cinema" di solito siamo abituati a pensare a film di fantascienza o di supereroi. Anche se su carta non sembra, Il buco di Michelangelo Frammartino, premiato alla 78esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, pur non parlando di alieni e persone dotate di superpoteri, è assolutamente questo: un film da godersi in sala, sullo schermo più grande possibile, con un ottimo impianto audio.
Nelle sale italiane dal 23 settembre, Il buco segue l'esplorazione di una grotta del Bifurto, nell'altopiano del Pollino, in Calabria, ad opera di una squadra di 12 speleologi (Leonardo Zaccaro, Jacopo Elia, Luca Vinai, Denise Trombin, Mila Costi, Claudia Candusso, Giovanbattista Sauro, Federico Gregoretti, Carlos Josè Crespo, Enrico Troisi, Angelo Spadaro, Paolo Cossi), diventati attori per Michelangelo Frammartino. Il regista racconta l'impresa di un gruppo di giovani che nel 1961 scoprì una delle grotte più profonde al mondo, l'Abisso del Bifurto appunto, che arriva a 700 metri in profondità.
Il buco ha fatto innamorare la regista premio Oscar Chloé Zhao, membro della giuria di Venezia78 presieduta da Bong Joon-ho, che lo ha definito "un'esperienza mistica". Ne abbiamo parlato al Lido proprio con il regista Michelangelo Frammartino, che torna in sala a undici anni di distanza da Le quattro volte.
La video intervista a Michelangelo Frammartino
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Il buco: la figura umana e il paesaggio
Nel film c'è un parallelismo tra la grotta e la pelle del pastore: non è l'unico elemento di congiunzione tra l'umano e la natura. È stato intenzionale?
Sono sempre stato affascinato dal decostruire quella barriera che separa i personaggi dai paesaggi. Mi ha sempre colpito che linguaggio cinematografico fosse costruito sull'uomo. Il primo piano dell'uomo, la mezza figura umana e tutto il resto come sfondo. Da sempre ho provato a lavorare in un altro linguaggio, provando a smontare queste gerarchie. A un certo punto mi è capitato in mano un libro di un geologo, François Ellenberger, un importante geologo francese, che durante la guerra fu in un campo di sterminio per quasi cinque anni. In quel campo non poteva fare il suo lavoro, non poteva visitare vulcani, grotte, doline né forre. Allora decise di usare la scienza su se stesso: ha usato la geologia per esplorare i suoi meandri. Questa è stata una traccia importante.
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Il buco: arte e scienza
Questo è un film di contrasti: nord e sud, superficie e sottosuolo. E anche scienza e arte: accanto al carteggio tecnico vediamo dei disegni. Come è venuta questa idea?
Abbiamo dato libertà al disegnatore. Erano dei bravi disegnatori: facevano dei rilievi meravigliosi. Abbiamo chiamato Paolo Cossi, che è un fumettista e disegnatore, e anche a lui abbiamo lasciato libertà. Il rilievo di una grotta la porta in luce per sempre: la sradica dall'informe, dal mistero, dal nero e la aggiunge al mondo. Questo è un atto complicato. È vero che l'esplorazione è meravigliosa, ma allo stesso tempo sottrae qualcosa. L'informe è anche prezioso. E quindi sì, c'è questo confine in tanti modi: c'è un approccio che è scientifico, quello appunto della scienza, che misura, che rileva. Per noi il mondo se non ha misura, se non ha nome, se non è battezzato, se non ha forma, se non è mappato non esiste. Questo è lo sguardo della scienza. Poi però c'è anche lo sguardo dell'arte che fa più i conti col buio. L'arte si può permettere di lasciare il buio. Spero che questo sia un film che mantiene un piede nell'ombra e nell'informe.
A un certo punto la grotta finisce. Ma finisce davvero?
Una grotta non finisce mai. Per esempio il Bifurto in realtà si è scoperto che va ancora un po' avanti. Quindi una grotta non finisce mai.