La ricchezza e il quartiere di Beverly Hills; il luccichio accecante dell'apparenza e i mostri di abusi perpetrati e subiti da nascondere dentro armadi lussuosi. Nel 1989 il delitto Menéndez divenne subito un caso mediatico perché vivo di quella essenza drammatica che pare forgiata dall'inchiostro delle sceneggiature hollywoodiane. Ma, come sottolineato ne I fratelli Menéndez, nel mondo di Erik e Lyle non ci sono set, o armi finte: ma spari veri, sangue denso che cola, accuse da affrontare ed ergastoli da scontare.
È un caso che sa di Hollywood e che da Hollywood sarà riletto, drammatizzato, forse a tratti falsato, quello dei Menéndez. Ci vorranno anni, ma ecco che nel 2024 compare su Netflix Monsters: La storia di Lyle ed Erik Menéndez di Ryan Murphy, un'opera che nasce come un'indagine multifocale su un caso in cui non ci sono vittime e innocenti, ma solo un covo di mostri. Eppure, qualcosa si rompe nel motore narrativo di Murphy. C'è qualcosa che sembra mancare, e altro che pare eccedere.
Sarà per colmare tale lacune, raddrizzare un tiro narrativo troppo mirato verso la spettacolarizzazione del caso, oppure semplicemente sfruttare la scia del successo e del rinnovato interesse per i due fratelli, che sempre su Netflix è ora disponibile I fratelli Menéndez, docu-film che nell'arco di quasi due ore intende fornire uno sguardo quanto più completo su uno dei primi casi mediatici degli Stati Uniti. Lo fa, avvalendosi del racconto degli stessi fratelli, voci che paiono originarsi dal freddo dell'oltretomba. Narratori onniscienti, nascosti in un fuori campo carcerario, i due fratelli pongono la propria mano agli spettatori, per condurli lungo il cammino dei ricordi. Un percorso da compiersi con attenzione, sostenuto in ogni polvere di memoria da materiali di archivio, e video di repertorio che vanno a confermare quanto lasciato scorrere sullo schermo.
I fratelli Menéndez: un documentario oggettivo sul caso
Agli occhi di coloro che vedono i due nelle vesti di freddi assassini, è difficile accettare di prendere la mano dei fratelli e lasciarsi trascinare lungo i corridoi dei tribunali e tra le sale del processo; per chi invece i fratelli Menéndez non sono altro che vittime di un padre abusante, e di una madre negligente, assistere al documentario diretto da Alejandro Hartmann non è altro che uno sguardo ulteriore su un caso ancora ampiamente dibattuto, forte dell'interesse mediatico da parte dei social e del successo dell'opera seriale di Murphy.
Ma I fratelli Menéndez non è un prodotto di rimescolamento della realtà, bensì un documentario che aspira alla riproposizione oggettiva del caso, senza mediazioni esterne, ma giocando sulla forza dei ricordi delle parti in causa, tra accusa, difesa e giurati. Un po' come avvenuto in Italia con Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio, la cronaca si libera dagli artigli della curiosità mediatica, o del voyeurismo macabro tipico della società contemporanea, per tentare di integrare e aggiustare alcuni assetti disordinati, proposti dalla serie di Ryan Murphy.
La voce agli accusati
Gli atti del processo, gli istinti omicidi, il passato da nascondere, e i racconti da cui rifuggire, sono tessere di un puzzle che Hartmann riesce a ricongiungere con attenzione, senza lasciare nessuno spazio vuoto. Ogni passaggio viene analizzato da chi vede nei fratelli due assassini senza vergogna, e da chi trova nei due vittime innocenti di una mano mostruosa nascosta tra le pareti di casa. A sostenere i due punti agli antipodi, come un'asse terrestre, sono le voci di Erik e Lyle, i quali si svestono senza remore di filtri e inutili giustificazioni, recuperando e confessando attimi del proprio passato, con obiettività e sicurezza. Ma se lo spettatore è portato a credere a ogni lascito mnemonico è sicuramente per l'alacre uso del montaggio parallelo, pronto a far correre su due binari distinti la portata vocale, e il contenuto visivo, di uno stesso spazio di racconto.
Non intende suggerire un esito preciso, o modificare il giudizio sul caso da parte del proprio pubblico, I fratelli Menendez. L'opera di Hartmann intende solamente riuscire là dove la serie di Murphy ha mancato: porre alla mercé dei propri spettatori le fasi salienti del caso, riproponendo gli attimi registrati del processo, e dei motivi che hanno spinto i due a compiere l'infausto gesto, tracciandone i meccanismi psicologici, basandosi sulle parole dei medici, degli stessi Erik e Lyle e dei loro parenti. Il resto sarà nelle mani degli spettatori, giudici inascoltati pronti a deliberare la propria sentenza nello spazio di casa.
Conclusioni
I fratelli Menéndez non vuole essere un'estensione dell'opera seriale di Ryan Murphy, tutt'altro. Il docu-film disponibile su Netflix intende piuttosto andare a colmare le lacune lasciate dall'autore di Monsters, e mettere in ordine alcuni passaggi fortemente manipolati per un interesse mediatico e spettatoriale.
Sostenuto dal racconto in prima persona dei due fratelli raggiunti in carcere, l'opera ricostruisce pezzo per pezzo uno dei delitti più conosciuti degli Stati Uniti, dando voce non solo ai diretti interessati, o ai loro famigliari, ma anche a chi non ha mai creduto in una loro possibile innocenza, o in un passato doloroso e pieno di abusi.
Senza forzare i propri spettatori verso una determinata sentenza, I fratelli Menéndez mette a disposizione al proprio pubblico tutti gli strumenti necessari con cui formulare un proprio giudizio personale, riuscendo nella strutturazione di un racconto obiettivo e interessante.
Perché ci piace
- L'uso della voce fuori campo di Lyle ed Erik Menéndez.
- L'utilizzo del materiale di repertorio e, in particolare, degli stralci del processo.
- La neutrale obiettività del racconto.
- La scelta di includere anche i giurati.
Cosa non va
- la reiterazione di alcuni passaggi, o di alcuni argomenti già trattati.
- Un numero esiguo, ma che poteva essere più consistente, di coloro che non vedono nei due fratelli vittime degli abusi paterni.
- Non aver indugiato sul potere divulgativo che una piattaforma come TikTok vanta oggi nei confronti del caso Menéndez.