Sette anni di ricerche, studi meticolosi e ricostruzione filologica. Un film costato nove milioni di dollari per raccontare la storia personale dei fratelli De Filippo, le loro relazioni, la ferita profonda per essere stati sempre emarginati dalla famiglia Scarpetta, all'ombra di un padre padrone che non li ha mai riconosciuti alimentando il senso di rivalsa che sarebbe diventato il germe alle origini di una delle più grandi rivoluzioni del teatro del Novecento. All'inizio I fratelli De Filippo (in sala dal 13 al 15 dicembre in 290 copie e in onda su RaiUno in prima serata il 30 dicembre) doveva essere una serie tv, poi Sergio Rubini ha accettato l'idea di farne un film, a patto che fosse una storia di riscatto e speranza, "la costruzione di tre personalità molto complesse, articolate e problematiche", realizzata solo grazie all'aiuto, alla tenacia e all'energia della Pepito Film. Girato in piena pandemia, durante la seconda ondata, "è stata un'avventura complicatissima, ma nessuno ha mai mollato. Lo abbiamo fatto in un clima di guerra", ricorda il regista che per i protagonisti sceglie di puntare su interpreti poco conosciuti: Mario Autore, Anna Ferraioli Ravel, Susy Del Giudice e Domenico Pinelli.
Il film arriva in sala dopo il ritratto scarpettiano di Mario Martone Qui rido io, ma questa è tutta un'altra storia, anzi ne è il seguito ideale che racconta le vicende tra il 1925, anno della sua morte, e il 1931, quello in cui nasce ufficialmente la Compagnia Teatro Umoristico 'i De Filippo'. "Io e Mario Martone abbiamo raccontato due storie completamente diverse io stavo raccontando Pinocchio, lui Geppetto - ci tiene a precisare Rubini, che aveva annunciato il progetto molto tempo prima del film di Martone. - Volevo raccontare i De Filippo come fossero i Beatles, a me Scarpetta non interessava, era solo una sorta di Mangiafuoco che ha instillato questa straordinaria storia di riscatto". E chissà che non ci sia un sequel, come si augura lo stessa regista.
Tra immaginazione e ricostruzione filologica
Come vi siete mossi in questo immenso lavoro filologico?
Sergio Rubini: All'inizio ero molto spaventato perché sapevo che avremmo dovuto studiare tantissimo, tanti anni fa avevo raccontato lo spunto ad Agostino che ne era rimasto colpito, così sulla pelle della sua società abbiamo realizzato questo film. L'idea all'inizio era quella di raccontare una storia più articolata e farne una serie TV, ma avremmo perso troppo tempo, abbiamo deciso quindi di farne un film isolando un segmento del racconto e mettendoci dentro in nuce tutto ciò che sarebbe accaduto dopo. Non abbiamo solo raccontato quello che avveniva tra il 1925 e il 1931, la parte che ci interessava di più, ma abbiamo anche accennato ad episodi che in realtà sarebbero accaduti in un secondo momento. È stato un lavoro complicato, lungo e con una sceneggiatura molto lavorata.
I fratelli De Filippo, la recensione: Tra epopea familiare e racconto di formazione
Il film si regge sulla continua combinazione di ricostruzione storica e immaginazione. In che rapporto stanno questi due elementi?
S.R.: La ricostruzione è uno strumento al servizio dell'immaginazione. L'immaginazione è stata la scintilla che mi ha animato. Tanti anni fa quando ero appena ventenne lavoravo in una compagnia napoletana con dentro tantissimi attori di grandissimo livello tra cui Francesco De Rosa, che un giorno mi raccontò che tutti i pomeriggi alle tre da Palazzo Scarpetta Napoli in via Vittoria Colonna veniva fuori tutti i giorni un cameriere con un vassoio che percorreva esattamente quattrocento metri per portare da mangiare alla famiglia De Filippo. L'amore per questa storia, che non conoscevo in profondità, arriva da qui; sapevo chi erano i De Filippo, ce li avevo nel DNA, è recitando Natale in casa Cupiello in una compagnia di teatro amatoriale che decisi di fare l'attore. Sono partito dall'immagine di quel cameriere e ho iniziato a informarmi e a studiare e con l'immaginazione a costruirci attorno un senso. Qualsiasi ragazzo abbia tenacia, abnegazione, sangue, sudore e lacrime pur partendo dalle retrovie, da una condizione di profondo svantaggio o da un'umiliazione profonda, può ribaltare il proprio destino. È una storia di speranza per tutti e ognuno può cambiare la propria con la meritocrazia, che oggi va sempre meno di moda, e il talento. Oggi si dice che i giovani sono senza futuro, questo film racconta invece un futuro possibile e luminoso, basta aver talento e tenacia. Tutti possiamo cambiare la nostra storia.
Che tipo di consulenza hai ricevuto sul set de I Fratelli De Filippo?
S. R.: Ho avuto tanti consulenti soprattutto per l'uso della lingua perché sul set spesso sentivo il bisogno di fare improvvisare gli attori e inserire battute non previste in sceneggiatura. Volevo che fossero contestualizzate e napoletanizzate, non semplicemente tradotte in napoletano. Abbiamo studiato tantissimo e riempito i buchi con l'immaginazione degli sceneggiatori. Volevo fare un film sulla giovinezza che però non è riproducibile: un attore molto giovane ma di successo l'ha già persa, io invece avevo bisogno di una giovinezza autentica che avesse a che fare con la verginità. Credo che gli attori siano prima tutto delle persone, quindi ho cercato delle persone. Il mestiere dell'attore consiste nel non avere mestiere, perché ogni volta deve essere una scoperta, una meraviglia, uno stupore quando ti attacchi al mestiere atrofizzi la tua creatività, la tua verità e autenticità. Avevo bisogno di persone che fossero disponibili a mettere in campo la loro nudità e umanità e ho cercato dei tratti psicologici che avessero a che fare con l'idea che avevo dei De Filippo. Li ho cerati per il loro talento e capacità di essere loro stessi.
La scommessa di un cast giovane e semisconosciuto
Cosa rappresentano per voi i fratelli De Filippo?
Mario Autore: Per me è stato un debutto assoluto al cinema. Vengo dal teatro, ma non ho mai interpretato un testo napoletano, i De Filippo sono una storia, e in quanto napoletano sono una presenza costante nella nostra quotidianità, spesso parliamo con citazioni e frasi di Eduardo e Peppino, qualcuno addirittura non lo sa. Impregnano la cultura napoletana, sono vivissimi anche per chi non li conosce.
Anna Ferraioli Ravel: Ho debuttato ancora adolescente con Filomena Marturano, mi accostavo all'epoca in una versione assai improbabile. La loro grande forza li ha resi trasversali alle epoche e profondamente radicati a un tessuto sociale, al punto da assurgere a modello perché si sono resi interpreti di un'istanza di cambiamento e si sono rapportati al dramma di quel tempo; rispetto a noi che siamo una generazione profondamente individualista in cui il dramma è sempre mediato da qualcosa, loro hanno vissuto la guerra, la fame e la povertà. Il film manifesta attraverso i rapporti familiari il loro percorso di rivoluzione culturale, i De Filippo sono i fondatori del Neorealismo inteso come linguaggio delle emozioni. Proprio sui rapporti abbiamo lavorato, ogni personaggio viene fuori attraverso gli occhi dell'altro. Sergio ha intuito nei nostri occhi un'evocazione di quei personaggi e quindi ci ha reso profondamente liberi.
Domenico Pinelli: L'importanza che questo film ha per me è più grande di quella che probabilmente ha per tutti, mio padre è attore e da piccolo ho rischiato di fare Peppiniello perché dicono sia di buon auspicio per gli attori napoletani. Papà mi fece conoscere Eduardo quando ero ancora bambino e io volevo essere lui, questo per me è stato un piccolo miracolo.
Susy Del Giudice: Mio padre faceva il suggeritore a teatro e ho iniziato a sette anni con la sceneggiata napoletana capitanata da Beniamino Maggio, e non ho mai smesso. Ho conosciuto Mario Scarpetta e poi Luigi De Filippo, hanno sempre fatto parte della mia tradizione e del mio quotidiano, mangiavo pane e de Filippo, il ciclo si è concluso grazie a Sergio Rubini.
Per citare una battuta del film "a chi avete rubato l'arte" nella creazione dei vostri personaggi?
S. D. G.: Quando sentii che avrei potuto interpretare Luisa De Filippo mi sono documentata attraverso i racconti di mio padre, di Mario Scarpetta e Luigi De Filippo, ma sono partita da una frase scritta da Peppino: "Quando mi accostavo a mia mamma sentivo sempre un profumo di confetti". Luisa era questo: l'odore di confetti, la mamma, la carnalità colei che amava e che ha sempre voluto il meglio per i propri figli. D. P.: Ho letto Una famiglia difficile, Peppino come me forse soffriva di manie di persecuzione e questo mi è servito molto sul set, il suo essere eterno secondo e di voler emergere a tutti i costi. Ho usato quello che avevo. A. F. R.: Titina era il collante tra i due fratelli, mi sono concentrata sulla relazione e sul vissuto di una donna che rappresentava la coesione non solo rispetto ai fratelli ma anche rispetto a una madre quasi figlia. Sentiva addosso tutta la responsabilità di questo grande carrozzone, rappresentava la parte più solida, e provava a conciliare il suo ruolo di mater familas e capo clan con l'urgenza di espressione artistica molto profonda e rispettosa della sua fisicità che era non solo corpo ma un modo di essere. Non è mai venuta meno a se stessa, è sempre stata onesta e coraggiosa. M. A.: Con Eduardo ho in comune l'essere molto chiuso a quanto ho potuto studiare. Per interpretarlo mi sono ispirato a Sergio, alla sua passione e entusiasmo.