Charlotte Rampling è un'attrice straordinaria, capace di sfumature impalpabili nel rendere il dolore sommerso con pochi tratti significativi. A sottolineare questo suo talento ci ha pensato Andrea Pallaoro, giovane regista italiano forte dell'esordio internazionale con l'opera prima Medeas. In Hannah, Pallaoro torna a esplorare un linguaggio cinematografico che gli sta a cuore. Un linguaggio fatto di silenzi, di omissioni, di indagini intime sui personaggi. Hannah è una donna in pensione che frequenta un corso di recitazione e deve fare i conti con l'improvviso arresto del marito, con cui ha condiviso tutta la sua esistenza. La cinepresa di Pallaoro (il film è girato in 35mm) segue Hannah nei suoi gesti quotidiani, nei piccoli riti, nella sua dimensione domestica, indagandone il dolore trattenuto che sembra forzarle l'anima nel tentativo di trovare uno sbocco.
Hannah appartiene a un cinema che guarda a una tradizione intimista, rarefatta. Pallaoro sembra più interessato a restare incollato addosso alla sua protagonista, scandagliandone l'interiorità, che a sviluppare un plot comprensibile dipingendo con tratti incerti tutte le figure e gli eventi che ruotano attorno alla donna. Eventi la cui natura è spesso incomprensibile dal momento che il regista nega le informazioni necessarie per farsi un'idea precisa o le centellina spargendole qua e là in modo apparentemente casuale. Così vediamo Hannah interagire sporadicamente col marito, con i vicini di casa e con i compagni del corso di recitazione, ma per gran parte del film la donna è sola con il suo dolore. Tale è il livello di indeterminatezza del contesto che la circonda che l'impressione è quella di trovarsi di fronte a un acquarello dagli sfondi sfumati e indefiniti. In tal senso la scelta di girare in pellicola è sicuramente utile agli intenti registici.
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Arte e negazione
Il cinema di Andrea Pallaoro si colloca in una dimensione artistica e anti commerciale. Ogni scelta stilistica denuncia la volontà di schivare i compromessi. Ridotte al minimo le interazioni umane, Hannah entra in una dimensione dialogica con lo spazio e gli oggetti. La cinepresa di Pallaoro indaga gli interni dell'appartamento che la donna condivide con il marito, prima, rimanendovi poi da sola, o la segue nelle sue sortite nel quartiere residenziale della città belga in cui dimora. Il suo smarrimento dopo l'arresto del marito si traduce in un dolore raggelato, che la donna maschera dietro una parvenza di normalità continuando a indugiare nelle proprie abitudini. Solo più tardi intuiremo la natura del reato commesso dall'uomo in quanto Pallaoro non ci fornisce alcun tipo di appiglio, ma si affida al potere di astrazione del pubblico e a volte neppure a quello affidando le informazioni al fuori campo. A lungo andare questa reticenza pesa sulla fruizione del film lasciando allo spettatore un senso di smarrimento difficile da scollarsi di dosso.
Andrea Pallaoro lavora per sottrazione facendo il vuoto intorno alla sua protagonista. Costretta a far visita al marito in carcere, Hannah tenta di preservare una parvenza di dignità trincerandosi dietro un rigoroso silenzio. L'isolamento viene aggravato dall'allontanamento dei parenti, dalla sospensione improvvisa e priva di spiegazione dell'abbonamento in palestra e dalla scelta della donna di separarsi dall'amato Cavalier King che sembra determinato a non mangiare più in sua presenza. L'unica valvola di sfogo, l'unica forma di interazione umana della donna è rappresentata dagli esercizi attoriali, dalle letture che prova e riprova, in cui canalizza il proprio dramma personale ricavandone, però, solo una formale freddezza. La cappa di tristezza e solitudine che pesa sulla donna viene amplificata dai tagli di inquadratura scelti e dalla fotografia, che privilegia toni grigi e luci soffuse.
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La poetica della distanza
L'ennesima straordinaria performance di Charlotte Rampling non è sufficiente al coinvolgimento dello spettatore in una pellicola che fa del distacco il suo punto cardine.
La Rampling, perfetta nell'interiorizzazione del dolore suggerito e mai esplicitato, è impeccabile, ma il rigore formale e stilistico alla base della poetica di Andrea Pallaoro limita la potenza narrativa della pellicola scavando un fossato che separa performance artistica e dimensione emotiva.
La poetica del regista si fa forte di uno sguardo algido e distaccato che ci fa risultare la materia distante. Il tema della pedofilia viene suggerito da pochi dettagli significativi subito mimetizzati nel flusso di fotogrammi statici, lunghe sequenze in cui niente sembra accadere, primi piani ed estenuanti piani ravvicinati di oggetti. La scelta del regista di affogare la tragedia nella monotonia del quotidiano rappresenta un tentativo coraggioso di aderire a una nuova prospettiva, ma alla lunga risulta sfiancante. Pallaoro concede ad Hannah un unico breve momento di sfogo, un pianto improvviso mentre si trova seduta sul bordo della vasca da bagno che rappresenta un'incrinatura nella sua corazza. Una rapida breccia che ci fa esperire la sua umanità, per poi tornare a offuscarne i contorni ripristando la maschera di autocontrollo di Hannah.
Movieplayer.it
2.5/5