I film di Miguel Gomes non sono mai facili, tant'è che durante la visione ci chiediamo più volte: dove accidenti ci sta portando? Effettivamente, Grand Tour, in accordo con il titolo, è un viaggio di due ore piene, anzi pienissime, che mischia una sperimentazione audiovisiva ardita nella sua eleganza espressiva (fino ad un finale che sembra omaggiare il cinema stesso). In questo caso, ragioniamo su quanto alcune opere possano esistere e vivere solo all'interno di un contesto strettamente limitato come quello di un Festival. Presentato in concorso a Cannes 2024, il film alterna una linea narrativa ad un'altra, per così dire, documentaristica (banalizziamo il concetto), realizzata dal regista nel 2020, in un viaggio nel sud-est asiatico ripreso dall'ottica di una telecamera da 16mm.
Lo stesso materiale che risuona anche grazie alla scelta musicale (ad un certo punto irrompe Strauss), facendo da legame nel sesto lungometraggio del regista portoghese, da sempre mosso da un approccio libero, anarchico e anti-schematico. Chiaramente, come sottolineano le note produttive, Grand Tour è a tutti gli effetti un'impresa, produttiva, narrativa (se pensiamo che le riprese di Gomes si siano tra l'altro svolte durante il periodo pandemico) e anche visiva (la visione pretende attenzione e pazienza, doti ormai rare). Per questo ragionavamo su quanto pellicole del genere abbiano nei festival (di prestigio come Cannes) il confine migliore, per essere apprezzate e doverosamente raccontate.
Grand Tour, un viaggio per immagini
Allora, per spiegare Grand Tour, bisogna partire dal montaggio, che alterna tre tracce che andranno a sovrapporsi, offrendo al pubblico una conflittualità continua e parallela nella narrazione sostenuta dal regista. Da una parte seguiamo l'inglese Edward Abbot (Gonçalo Waddington), figlio dell'epoca coloniale inglese (una traccia del film è ambientata nel 1917), che invece di rincontrare la sua fidanzata Molly (Cista Alfaiate) dopo sette anni, parte per un viaggio che inizia dalla Birmania fino a Saigon, toccando Manila, Osaka, Shanghai e il Tibet.
Lo stesso viaggio che segue Miguel Gomes nel 2020, toccando la giungla, i villaggi, i mercati, fermandosi sul cemento e sui grattacieli, giganti e decadenti. Dall'altra parte, lo stesso filo documentaristico è accompagnato da diversi voice over, che raccontano la storia. Grand Tour, infatti, nella seconda parte, si concentrerà proprio su Molly, alla ricerca di Edward. In mezzo, personaggi tanto assurdi quanto irresistibile, che sembrano usciti da un romanzo di Salgari o di Conrad.
L'inaccessibilità stimolante di Miguel Gomes
Un solo racconto, tre diverse prospettive, e il valore narrativo che diventa per certi versi relativo, almeno secondo lo stile di Gomes. È l'immagine a dominare Grand Tour, ed è sempre l'immagine che indirizza la storia che risulta essere la parte meno interessata e interessante del film. Per questo ragionavamo di quanto la comunicabilità di certe opere sia ardimentosa nell'ottica del grandissimo pubblico (che non è quello dei festival). Il portoghese non ci tiene ad essere comprensibile, ne a favorire il pubblico (e su questa nota si potrebbe discutere senza trovare un punto d'incontro), ma anzi prosegue dritto verso il miscuglio di lingue, odori e colori (anche se è girato quasi tutto in bianco e nero, con la fotografia curata da ben tre dpi, tra cui Sayombhu Mukdeeprom, collaboratore di Luca Guadagnino), rifacendosi tanto al cinema hollywoodiano degli Anni Quaranta, quanto al reportage.
Più in generale, Grand Tour - in parte girato anche in alcuni studi di posa italiani - è un diario di viaggio contemporaneo che pone l'accento sulle contraddizioni, sulle evoluzioni e sulle involuzioni di un territorio che tendiamo ad idealizzare, e che Gomes asciuga e assottiglia affrontando il colonialismo (di cui gli stessi portoghesi non possono ritenersi esclusi, anzi) grazie al melting pot di voci e accenti, per porsi come struttura cinetica dall'astrattismo coraggioso, tanto tortuoso quanto stimolante.
Conclusioni
Lo abbiamo scritto nella nostra opinione: Grand Tour è un diario di viaggio, ma anche un'esperienza narrativa oltre il quale il grane pubblico difficilmente riesce ad andare. Asciutto nella sceneggiatura, il film spinge sulla tonalità e sulla potenza delle immagini, affrontando il colonialismo (anche moderno) attraverso diverse tracce, a volte più astratte a volte più tangibili.
Perché ci piace
- La fotografia.
- La colonna sonora.
- La suggestione del sud-est asiatico.
- La liberta di Gomes.
Cosa non va
- Libertà però ardimentosa, poco accessibile.
- A volte eccessivamente spigoloso nel valore del racconto.