Recensione Il silenzio tra due pensieri (2003)

Il film di Babak Payami mostra un coraggio che non può che piacerci, e che andrebbe premiato, perché sintomo di un desiderio di libertà espressiva che travalica qualsiasi forma d'oppressione.

God bless Iran

Lo sforzo produttivo che sta dietro l'ultimo film di Babak Payami meriterebbe d'essere premiato. Il silenzio tra due pensieri ha infatti avuto una lavorazione travagliatissima, culminata nel ritiro del film da parte delle autorità iraniane. Ma è un lavoro su cui hanno creduto sia il regista, che ha rimontato il tutto attraverso una copia digitale e spezzoni di lavorazione, sia la distribuzione dell'Istituto Luce, che ha premiato il film adottandolo, aiutandolo e, infine, distribuendolo in Italia (uscirà in 10-15 copie).

Payami, così come aveva fatto in Il voto è segreto, parla della sua terra, del suo popolo e dei suoi costumi raccontando storie non emblematiche, prive di scene madri, ma ricche di quel sentimento descrittivo del quotidiano che rende i suoi lavori così interessanti.
Sul piano puramente interpretativo, Il silenzio tra due pensieri richiede un certo sforzo d'immedesimazione. La storia narrata è ricca di sottotesti che ci rimandano a usi e costumi sui quali si vuol porre l'attenzione.
Il piano sequenza iniziale ci descrive un uomo che spara a intervalli regolari, con una certa normalità e disinteresse. Payami mostra sin da subito una particolare solennità di ripresa. Il campo lo si delimita all'inizio della sequenza, i personaggi entrano e escono dall'occhio della macchina da presa spostando l'azione indipendentemente dallo sguardo sulla scena. Gli unici movimenti sono studiati appositamente per mettere in correlazione due elementi precisi nella diegesi filmica. E così, sempre nella sequenza d'apertura, dopo il secondo sparo la cinepresa si muove circolarmente aprendo il campo e ponendosi alle spalle del tiratore, creando una diagonale di profondità che lega il boia alla sua ultima vittima. E la fissità dello sguardo cerca di non lasciare nulla al caso, di esplorare qualsiasi atteggiamento e sviscerare introspettivamente il tessuto narrativo.
Della donna non si dice mai quale fosse il suo crimine. Viene messo all'indice il semplice fatto che sia donna, evidenziando la disparità fattuale tra sessi nella società teocratica iraniana. Così come non vengono meglio identificati i rapporti di tensione tra un'autorità politico-religiosa mistificante e quella dei muezzin, legata al territorio e al tessuto sociale.

Il coraggio del film di Payami sta anche e soprattutto nel distribuire in ogni caso una copia "da mal di pancia", tecnicamente deficitaria e a tratti qualitativamente pessima. E questo è un coraggio che non può che piacerci, e che andrebbe premiato, nonostante un'intrinseca difficoltà interpretativa, in sala, perché sintomo di un desiderio di libertà espressiva che travalica qualsiasi forma d'oppressione.