Gabriele Mainetti: "Con i miei personaggi cerco di sospendere l'incredublità"

Gabriele Mainetti, il regista di Lo chiamavano Jeeg Robot e di Freaks Out, è stato il protagonista di uno degli Incontri Ravvicinati più attesi della Festa del Cinema di Roma.

Venezia 2016: Gabriele Mainetti sul red carpet di The Young Pope
Venezia 2016: Gabriele Mainetti sul red carpet di The Young Pope

Il suo Freaks Out era forse il film italiano più atteso dell'anno. Dopo che molti film internazionali sono stati rimandati, è forse il film più atteso dell'anno in assoluto. Parliamo di Gabriele Mainetti, forse il talento più cristallino della nuova generazione di registi italiani. Il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, sorprendente opera prima, è stato un successo clamoroso. Mainetti si è dimostrato autore capace di unire autorialità e pop, di accontentare critica e pubblico. Gabriele Mainetti è stato il protagonista di uno degli Incontri Ravvicinati più attesi della Festa del Cinema di Roma all'Auditorium Parco della Musica. Vestito di nero, sneakers bianche ai piedi, Mainetti è come il suo cinema: raffinato e pop. Attraverso quattro sequenze di film ci ha raccontato il cinema che ama. E ci ha permesso un po' di capire da dove viene il suo. Alla fine, sono stati mostrati 8 minuti dell'attesissimo Freaks Out, che vi raccontiamo qui.

L'armata Brancaleone

Larmata Brancaleone
L'armata Brancaleone: un'immagine di Vittorio Gassman

La prima sequenza è un assolo di Vittorio Gassman ne L'armata Brancaleone di Mario Monicelli. Quella in cui l'istrione a cavallo incita i suoi a seguirlo, ma, dopo aver sproloquiato a aver governato a fatica il cavallo, prende la direzione sbagliata. "Ho scelto questa sequenza perché è un film che, insieme I soliti ignoti, ho visto non so quante volte con mio padre" ha raccontato Gabriele Mainetti. "Brancaleone è stato determinante per la genesi di Freaks Out, per come abbiamo raccontato i nostri freaks, per il nostro sguardo tutto italiano". "Brancaleone non perde mai la voglia di inseguire il sogno di essere un cavaliere. Quello che mi piace di questo film è il tono" continua. "E la meraviglia, che al cinema merita di essere inseguirla continuamente. Dietro al costume c'è una ricerca meravigliosa. si va vicino alla commedia dell'arte, E c'è quella parrucca eccessiva quasi da samurai, quel cavallo a cui in postproduzione viene messo il raglio dell'asino. E poi c'è Vittorio Gassman, che crede in quello che fa e quindi crea un personaggio meraviglioso. Monicelli l'ha scoperto, anche ne I soliti ignoti era meraviglioso quando tartagliava, faceva il pugile suonato. Alcuni registi dicevano che Mario Moncielli approcciava il cinema con leggerezza, ma era una leggerezza con uno sguardo tagliente sulla nostra società".

Lo chiamavano Jeeg Robot: Gabriele Mainetti "Vi presento il mio supereroe ispirato a Leon"

Per un pugno di dollari

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Per un pugno di dollari: Una scena

La seconda sequenza scelta è di un altro grande autore italiano, Sergio Leone. La scena è tratta da Per un pugno di dollari: è quella in cui Clint Eastwood, dopo un duello, fa la famosa battuta sulle bare. "Leone portava con sé quello sguardo romano, Monicelli era più italiano" commenta Mainetti. "Leone, per quanto lavorasse nel mondo internazionale, portava la romanità e l'ironia della romanità". Tra l'altro è noto che scrivesse alcune battute delle sue sceneggiature in romano, per coglierne lo spirito, e poi le facesse tradurre. "La battuta 'mi sono sbagliato, le bare erano quattro', è una battuta che solo un romano poteva fare, Leone aveva questa capacità" continua. "Al tempo non è che ricevesse dalla critica un riconoscimento importante. Era impossibile accorgersi di una visione libera dalla politica, ma che a suo modo era politica. Lui raccontava la storia degli ultimi e questo la diceva lunga in un Paese dove andavano avanti solo gli eroi. Lui ha destrutturato completamente il cinema western". "Leone ha fatto un film che era uno Spaghetti Western e si è stupito dal successo mondiale che ha avuto: si dice che Kurosawa abbia guadagnato più dai diritti di Sergio Leone che dai suoi film" scherza Mainetti. "Era un regista portato per essere internazionale, e sistematicamente rilanciava, creava sempre qualcosa di più bello a ogni nuovo film, e poi ha creato il suo capolavoro. C'era una volta in America, che ha destrutturato il cinema di gangster americano. Il sogno americano non c'è: Noodles non ci arriva proprio" "Sicuramente Sergio Leone è un produttore migliore di me" conclude il regista. "Diceva: non ci devi mai mettere i tuoi soldi in un tuo film. Io ho fatto il contrario tutti i soldi di Lo chiamavano Jeeg Robot li ho messi in Freaks Out, e anche quelli che non avevo"-

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Freaks Out: una foto del film

Come si rende credibile un mondo fantastico?

Lo chiamavano Jeeg Robot: Luca Marinelli in una scena del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Luca Marinelli in una scena del film

Il caso di Sergio Leone è importante per capire una delle chiavi del successo del cinema di Mainetti. Anche i personaggi di Lo chiamavano Jeeg Robot, in fondo, sono di respiro internazionale, eppure sono tipicamente romani, locali. "Se ambiento un film nel mio spazio regionale devo rendere credibile il mio viaggio fantastico" spiega il regista. "Non che i registi italiani non abbiano fatto cinema di questo tipo. Ma, dopo che Leone ha spento un certo cinema di genere, con C'era una volta in America, ripensarlo in una chiave nuova non era facile. Io volevo che lo spettatore sospendesse l'incredulità. Come farlo? Dobbiamo pensare a un nostro personaggio, e di dove? Romano. E di dove, di Roma nord o di un altro posto? Attraverso il personaggio si riesce a sospendere l'incredulità". "Fare l'attore mi ha aiutato" aggiunge. "Ho capito quanto è importante costruire i personaggi insieme agli attori. Gli americani hanno un protocollo, ci sono momenti in cui si ride e altri in cui si piange. Nei film italiani si può ridere e piangere insieme, pensiamo a Matrimonio all'italiana".

Lo chiamavano Jeeg Robot: un supereroe a Tor Bella Monaca

E.T. L'extraterrestre

E.T. l'extraterrestre - una scena del film
E.T. l'extraterrestre - una scena del film

Il terzo film scelto, e non poteva essere altrimenti, è E.T. L'Extraterrestre di Steven Spielberg. Un film che ha una grande idea di fondo, come Incontri ravvicinati del terzo tipo: capovolge la prospettiva, l'alieno era sempre una minaccia e qui è una salvezza. La sequenza scelta è quella, commovente come poche, dell'addio. "Mi piace pensare che è il primo film che ho visto al cinema" commenta Mainetti. "Rimasi sopraffatto dalla bellezza di questo film, è come in Inside Out il personaggio che sta nel fondo dei ricordi, l'amico immaginario. Il suo é un gioco meraviglioso: raccontare storie al pubblico mettendolo di fronte a delle storie come dei bambini". "Spielberg ha uno sguardo vicino al nostro, prende la storia di persone normali, persone con fragilità, per lo più bambini, e li porta a un livello enorme" aggiunge. "La guerra dei mondi è la storia di un padre che deve separarsi dal figlio, in un contesto straordinario. Ma Spielberg non potrebbe mai fare la storia del coatto che si prende sul serio" aggiunge ripensando a Monicelli. "Spielberg è vicino al pubblico, ma se non si sente dentro una storia non riesce a raccontarla" conclude Mainetti. "Elliot di E.T. è lui, è il bambino che comincia a dire: basta, ora cresciamo. E ha cominciato a fare un altro cinema".

Lo chiamavano Jeeg Robot: Ilenia Pastorelli in una scena del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Ilenia Pastorelli in una scena del film

Lo chiamavano Jeeg Robot

Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli in una scena del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria e Ilenia Pastorelli in una scena del film

L'ultima sequenza di questa piccola antologia è sua, è quella de Lo chiamavano Jeeg Robot in cui Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) salva Alessia dallo Zingaro. Quando fu presentato ai selezionatori della Festa di Roma, cinque anni fa, c'era una certa diffidenza, era un oggetto misterioso, non si capiva se un film di genere potesse funzionare. "Ma è merito del titolo" scherza Mainetti. "La gente mi diceva: 'ho visto Lo chiamavano Jeeg Robot, con quel titolo credevo che fosse 'na fregnaccia, e non è male invece...' Se lo avessimo chiamato Il viaggio del fantastico Enzo, magari avrebbero detto: 'ammazza che schifo": Ma come è nato Lo chiamavano Jeeg Robot? "Da un percorso con Nicola Guaglianone, fatto di tanta sfiga" risponde Mainetti. "Quando eravamo giovani andavamo da Leo Benvenuti, eravamo i giovani sceneggiatori che volevano diventare grandi" rievoca Mainetti. "Io e Nicola ci siamo conosciuti lì e ci piacevano le stesse cose. Io ero più americano, lui più italiano, gli piaceva la commedia. Volevamo fare un film su un supereroe, uno che saliva su un palazzo con il mantello e poi cadeva in una piscina di notte, con la gente dei palazzi attorno che si svegliava e che gli gridava dietro. Invece lo abbiamo riscritto, abbiamo detto: 'perché non mettergli i superpoteri?'. Abbiamo cercato la tridimensionalità, l'ironia. Ma Enzo, che è solo e ha perso tutti, Alessia, che è abusata da suo padre eppure lo ama, lo zingaro, erano tutte maschere tragiche, che emozionano". Ed è da questi particolari che si giudica un regista, come direbbe De Gregori, anche se nella canzone parlava di calcio. Ed è da questi piccoli tasselli che cominciamo a capire davvero il cinema di Gabriele Mainetti. In Freaks Out troveremo storie fantastiche, fantasmagoriche, ma personaggi veri, credibili. Parleranno romano, come alcuni grandi personaggi del nostro cinema, perché è in Italia, e in un territorio preciso, che si muovono. E, ne siamo sicuri, ci stupiranno, ci faranno ridere, e ci commuoveranno ancora.

Freaks Out: una foto dei protagonisti
Freaks Out: una foto dei protagonisti