Frenetico, sensoriale, spietato. Ottantasette minuti di azione pura, quasi un film di genere dove però al posto degli inseguimenti troviamo le folli corse della protagonista. Full Time - Al cento per cento di Eric Gravel si colloca per temi affrontati - disagio sociale, precarietà e disoccupazione - dalle parti del cinema di Ken Loach, dall'altro è un film profondamene fisico. Gravel lo scrive e lo dirige, come vi spiegheremo nella nostra recensione di Full Time - Al cento per cento, e sceglie come interprete della sua Julie, un'attrice camaleontica come Laure Calamy, nota al grande pubblico per il ruolo dell'assistente Noémie nella serie Netflix Chiami il mio agente!. È lei la forza trainante di questo racconto e non è un caso che alla 78 edizione della Mostra del Cinema di Venezia dove il film è stato presentato nella sezione Orizzonti, sia stata premiata per la Miglior interpretazione femminile.
Una storia di resistenza: la folle corsa dei nostri tempi
La fisicità di Full Time - Al cento per cento si rivela cifra del film sin dalle prime inquadrature che si attardano sul corpo della protagonista: prima indugiando sul rumore del suo respiro, poi avvicinando lo spettatore alla sua pelle, esplorandola centimetro per centimetro. La bocca, il naso, gli occhi, le ciglia, persino le immagini sfocate di uno dei suoi sogni ricorrenti: è una delle poche parentesi di calma che Julie (Laure Calamy) può concedersi prima che l'allarme della sveglia puntata all'alba la catapulti nella routine feroce e concitata delle sue giornate.
Dallo spazio intimo del sonno a quello del mondo fuori frastornato dai notiziari di sottofondo, dallo sferragliare del metro, dagli sbuffi di fumo delle ciminiere delle fabbriche o dal vociare delle proteste di piazza. Sono questi i dettagli a cui il regista affida il compito di svelare gradualmente il personaggio di Julie, donna quarantenne, madre single con due figli sulle spalle a cui provvedere e un ex marito che latita nel pagare gli alimenti. Ha fatto di tutto per vivere in una piccola cittadina di campagna, appena fuori Parigi, per dare una vita più sana ai bambini e ogni giorno si fa in quattro, su e giù dalla capitale, per mantenere il suo lavoro di capo cameriera in un hotel di lusso parigino, dove la regola principale è "essere invisibili".
Nonostante l'ostinata tempra, la vita la sta mettendo a dura prova: la vicina a cui di solito affida i figli nelle ore di lavoro le ha appena comunicato che non potrà più occuparsene, e i soldi per pagare una baby sitter non ci sono, l'ex compagno si nega al telefono, lo sciopero nazionale che sta paralizzando l'intero sistema di trasporti le fa accumulare un ritardo dopo l'altro compromettendo il suo già precario equilibrio. Come se non bastasse la banca le sta con il fiato sul collo per le rate arretrate del mutuo e la direttrice marketing con cui ha sostenuto un colloquio per un nuova posizione lavorativa a cui ambisce da tempo, è praticamente sparita nel nulla senza darle una risposta. Julie non è disposta a cedere di un millimetro e si lancia così in una sfrenata corsa contro il tempo, ma il rischio di inciampare è alto.
Laure Calamy, eroina moderna
Julie ha lo spessore di un'eroina tragica, ma la storia di cui è protagonista assoluta è di estremo realismo, non c'è spazio per il melodramma, le sue partenze e i suoi arrivi a casa sono scanditi dalla ripetitività estenuante dei gesti: azioni quotidiane ripetute in sequenza con la medesima metodicità. Ogni giorno Julie balza già dal letto, lascia i bambini dalla vicina, corre verso la stazione, si infila nel primo treno verso Parigi, poi prende la metro, sale su un autobus e di corsa a piedi fino all'hotel in cui lavora giusto in tempo per timbrare il cartellino, stesso rituale sulla strada del ritorno. Lo fa con la stessa precisione maniacale con cui in albergo rassetta letti, spolvera tappeti, svuota cestini dell'immondizia e pulisce bagni: una serie di compiti e gesti precisi affinché il risultato sia impeccabile.
Una ritualità esasperante alla cui resa ansiogena partecipano da un lato gli indubbi meriti di Laure Calamy, dall'altro il montaggio serrato e la scelta delle sonorità elettroniche di Irène Drésel, autrice di una colonna sonora che traduce sul piano musicale gli scossoni interiori della protagonista, i suoi battiti convulsi. Colpisce la compostezza che Calamy infonde al suo personaggio, funambolica nel restare in bilico su quella sottile corda che la tiene ben lontana dall'esplodere, nonostante sia incalzata dagli imprevisti. Un ritratto femminile estremamente contemporaneo e capace di trasferire sul pubblico gli stessi sentimenti di inquietudine, ansia, sfinimento. E dopo averla vista correre, resistere, inciampare, vi accorgerete che il respiro non avrà più lo stesso rumore.
Conclusioni
Concludiamo la recensione di Full Time - Al cento per cento con la consapevolezza di aver assistito ad un’esperienza di visione unica o quantomeno rara. Eric Gravel racconta una storia di sfruttamento e precarietà, che se da un lato ricorda un film di Ken Loach, dall’altro propone un cinema profondamente fisico. Full Time - Al centro per cento è un viaggio sensoriale: la corsa della protagonista Jule dalla piccola cittadina di periferia al proprio luogo di lavoro a Parigi, la ripetitività dei gesti precisi e convulsi, i rumori frastornanti che la circondano, si appiccicano sulla pelle dello spettatore che si ritroverà a correre con lei, respirare affannosamente con lei, inciampare, disperare, soffocare dall’ansia.
Perché ci piace
- Un film profondamente fisico e sensoriale, il racconto dell’equilibrio precario del nostro tempo e della folle corsa che ci riguarda tutti.
- Laure Calamy è l’interprete perfetta di un personaggio, Jule, di cui seguiremo da vicino i respiri, gli affanni, le corse a perdifiato.
- Un’esperienza totalizzante, che rimane sullo spettatore a lungo e travalica i confini della visione.
Cosa non va
- La ripetitività ossessiva, i ritmi estenuanti e la dimensione ansiogena del film potrebbero disturbare o annoiare gli spettatori meno avvezzi a questo tipo di visione.