Freaks Out: un film italiano incompreso o cinema americano convenzionale?

A partire dagli incassi del film, ecco un'analisi su Freaks Out di Gabriele Mainetti: troppo simile ai blockbuster americani oppure una voce nuova (ma incompresa) nel panorama italiano?

Freaks Out: una foto dei protagonisti
Freaks Out: una foto dei protagonisti

Si è vissuta una grande attesa verso il secondo film di Gabriele Mainetti, pronto a tornare al cinema dopo il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot, folgorante esordio in cui il regista romano ha mostrato, nel 2015, che un cinema italiano diverso dal solito, fresco e nuovo, era possibile. Freaks Out è stato per lungo tempo solo un titolo e un'immagine, una breve sinossi che descriveva un'opera rimasta quanto più possibile nascosta. Fino al primo trailer nel 2020, dove finalmente si è potuto sbirciare oltre le tende del circo imbastito da Mainetti e Nicola Guaglianone. C'è chi si è meravigliato, perché qualcosa del genere in Italia non si era mai visto, ma non sono mancate le voci più scettiche nel vedere un prodotto "nostrano" assomigliare sin troppo a certo cinema mainstream americano. Una divisione che, dopo la prima proiezione al Festival del Cinema di Venezia 2021, si è ripresentata attraverso l'accoglienza critica, sia italiana che internazionale. Guardando agli incassi del primo weekend di Freaks Out sembra che il pubblico non abbia vissuto l'uscita del film come l'evento a lungo atteso (a una prima giornata in prima posizione, il film è velocemente sceso nelle classifiche giornaliere incassando meno di 700mila euro). Appare naturale domandarsi come il pubblico generalista si sia approcciato a questo film che appare, a prima vista, come un ibrido a metà strada tra un blockbuster americano sin troppo convenzionale e un film italiano atipico, innovativo e -come tale- anche un po' emarginato, come i protagonisti della storia.

C'era una volta Jeeg Robot

Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria in un'inquadratura del film
Lo chiamavano Jeeg Robot: Claudio Santamaria in un'inquadratura del film

In realtà, la storia sembra ripetersi. Già nel 2015, quando al pubblico italiano venne presentato Lo chiamavano Jeeg Robot, gli incassi non furono inizialmente soddisfacenti. L'esordio di Gabriele Mainetti visse una vera e propria seconda vita in sala dopo le numerose nomination ai David di Donatello e le successive vittorie, diventando col tempo un vero e proprio cult amato da tutti. Anche in quel caso il film diretto da Mainetti e scritto da Guaglianone rifuggiva da una natura ben definita: si trattata dell'origin story di un supereroe, con tanto di villain carismatico (lo Zingaro di Luca Marinelli), che strizzava l'occhio al canone dei cinecomics americani. La grande novità (e il vero miracolo) era l'equilibrio raggiunto tra il modello appartenente a un cinema lontano dal nostro e la quintessenza di "italianità" presente nel film. Il canone veniva imbevuto di una storia che non solo poteva benissimo essere ambientata in Italia e a Roma, ma che proprio di quell'ambientazione trovava i propri punti di forza, la propria ragion d'essere, la vera essenza. Così come non si può scindere una Gotham City nella creazione di Batman, la Roma del film è parte integrante della storia di Enzo Ceccotti. È solo il primo elemento di una cura di scrittura e messa in scena che colpisce e costruisce un primo fondamentale tassello di un cinema italiano "Altro", diverso dal solito e scontato modus operandi dell'industria. In quello che racconta, Lo chiamavano Jeeg Robot si prende sul serio perché crede in quello che rappresenta. E lo spettatore ci crede a sua volta.

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Un'altra fiaba, un altro rischio

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Freaks Out: una sequenza

A Gabriele Mainetti piace il rischio, ingrediente necessario nell'arte (e soprattutto nel cinema) perché in sua assenza viene a mancare la spinta verso il nuovo, che vuol dire anche restare al passo coi tempi. Lo sforzo produttivo dietro al suo secondo film lo si percepisce in ogni fotogramma, dalla cura fotografica agli effetti digitali, dalla recitazione del cast a una regia virtuosa e precisa, capace di dar vita a sequenze che nel nostro panorama appaiono sempre più rare. Ma qual è il "nostro" panorama? Con i blockbuster americani che sembrano gli unici prodotti, nel momento in cui scriviamo, a catalizzare l'attenzione del pubblico e a incassare cifre considerevoli, nonostante la situazione che ancora stiamo vivendo, nonché portatori di un'estetica e di un modo di concepire i film che ne definiscono quasi uno standard per il cinema d'intrattenimento, appare complesso definire un film come Freaks Out. Straordinario per come sfida la nostra industria, ma probabilmente sin troppo simile a un medio blockbuster americano che il pubblico di riferimento del film conosce bene. Eppure Freaks Out contiene al suo interno molto di più del nostro cinema che di quello straniero. Il vero rischio di Mainetti è quello di riproporre un cinema dimenticato o addirittura sconosciuto dalle generazioni di spettatori a cui intende rivolgersi, quello di Federico Fellini (La Strada, Le notti di Cabiria), di Roberto Rossellini (Roma città aperta, Germania anno zero), di Vittorio De Sica (Sciuscià) contaminandolo con il virtuosismo e la magia del cinema di Steven Spielberg. La scuola americana è soprattutto una scuola estetica, ma basterebbe ricordare come viene descritto un personaggio come quello di Franz o come la violenza e la nudità vengono esplicitate per inserire Freaks Out nel contesto più europeo e italiano a cui appartiene.

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La fatica di un equilibrista

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Freaks Out: una scena

Forse è proprio questa natura ibrida a rendere Freaks Out più complesso e meno accessibile rispetto a Lo chiamavano Jeeg Robot. Se il primo film di Mainetti appariva più coerente e intimo, qui lo sguardo si allarga e gioca con la Storia della Seconda Guerra Mondiale, coinvolgendo molti personaggi e inserendosi in un terreno scivoloso che gioca con la sensibilità del pubblico, mettendolo un po' alla prova (e, infatti, lo spirito un po' magico e meno verosimile in un contesto tragico è stato malinterpretato da alcune recensioni internazionali). Non abbiamo un solo protagonista inserito nella contemporaneità, ma ben cinque emarginati, diversi tra loro come da noi spettatori, che devono essere compresi e capiti. Si tratta dell'elemento più "europeo" di questo cinema, quello che mette in primo piano i personaggi e la loro costruzione anziché la trama. Come un perfetto circense, Freaks Out è costretto a rimanere in equilibrio su una fune, con il rischio di cadere continuamente e dando vita a un'opera a prima vista meno perfetta di Lo chiamavano Jeeg Robot. Il risultato è un'opera che appartiene davvero alla dimensione del Circo Mezzapiotta anziché del Zirkusberlin nonostante la volontà di essere spettacolare.

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L'incognita del pubblico

Foto Arianna Lanzuisi 32
Freaks Out: un'immagine del film

L'aspetto imperscrutabile rimane la percezione degli spettatori nei confronti di un'opera come Freaks Out. Nonostante un battage pubblicitario degno di nota, il film non sembra aver catalizzato l'interesse previsto (anche se, va detto che, al momento in cui scriviamo, siamo solo al primo weekend e i prossimi giorni potrebbero smentirci). Che il materiale pubblicitario non sia riuscito a far percepire la straordinarietà dell'opera, dando l'impressione di essere una "copia" di altri film internazionali? Oppure quest'assenza di grandi numeri è dovuta a una sempre maggiore esterofilia per cui manca, in generale, una sfiducia da parte dei giovani spettatori nei confronti del cinema italiano, specie se rappresentato da un film così diverso rispetto al solito? Non ci poniamo queste domande per trovare risposte certe, quanto per riflettere sul futuro della nostra industria. Esperimenti (perché di questo si tratta) come Freaks Out devono fungere da apripista verso quello che solitamente denominiamo come il ritorno del cinema "di genere". Un ritorno che, però, appare sempre più una chimera nel momento in cui non esiste un pubblico numeroso che lo acclama e lo desidera.

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È un mondo di freaks

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Freaks Out: una foto dei protagonisti del film

E infine c'è l'attualità. In questa fiaba ambientata nel passato sembra specchiarsi il mondo contemporaneo, fungendo da grido liberatorio e riscattatorio. Se la natura di un film come Freaks Out è quella di rimanere emarginato perché il cinema italiano non può essere così grande e ambizioso (come se "pensare in grande" in un'industria concentrata tra le pareti domestiche debba essere considerato di partenza un errore da non compiere), siamo contenti di assistere e intonare questo canto stonato ma sentito, alla stregua dei partigiani presenti nel film. Mainetti ci consegna un film con un messaggio forte e chiaro: il mondo è diversità. Lo è nella speranza che una nuova generazione di cineasti possa proporre idee atipiche, lo è come augurio per l'industria che deve rinnovarsi, e lo è soprattutto nelle persone, anche al di fuori di un discorso legato al cinema. Si vive ogni giorno attraverso l'attivismo e la narrazione politica una divisione sempre più netta nella definizione di "normale", tra chi indica il nuovo come "contro-natura" e chi, giustamente, è pronto a far sentire la propria voce. Freaks Out è un film che appartiene al nuovo e meriterebbe applausi più fragorosi di quelli sprigionati tra le pareti di un vecchio mondo. Così, questo secondo film di Gabriele Mainetti appare sempre più legato alla sua stessa anima e sempre più incompreso. Nel raccontare la storia di un gruppo di freaks diventa specchio della stessa natura dei protagonisti: una creatura strana, sicuramente imperfetta, ma dal cuore meraviglioso, capace di magia. Oggi, abbiamo bisogno di ricredere nella magia.